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Un destino, forse
di
Fabio Pusterla
Qualche settimana fa, uscendo da un memorabile spettacolo messo in scena al Teatro di Chiasso, si rifletteva tra amici sulla stranezza di certe cose. Fino a quindici, venti anni or sono, nessun luganese avrebbe mai pensato di mettersi in macchina per andare a Chiasso, a Bellinzona o a Giubiasco in cerca di occasioni culturali; anzi, semmai avveniva il contrario. Oggi, invece, i centri culturalmente più vivaci sono appunto questi, e tra di loro Chiasso occupa un posto particolarissimo: spettacoli teatrali originali e di alto livello; mostre fotografiche di grande valore; concerti, conferenze, e una costante attenzione ad alcune problematiche sociali e culturali di evidente attualità, a partire da quella relativa all’integrazione e al multiculturalismo. Del resto, proprio il comune di Chiasso fu tra i primi, o forse il primo in assoluto tra quelli ticinesi, a creare ormai parecchi anni fa la figura dell’addetto culturale, che venne assegnata a Domenico Lucchini. Era il segnale di quella collaborazione concreta tra operatori culturali e classe politica locale che ora sta dando i suoi frutti più maturi, dopo aver saputo affrontare battaglie impegnative e anche aspre per concretizzare i suoi sogni: dal restauro appunto del vecchio Cinema Teatro, osteggiato con motivazioni non proprio limpide da alcune forze politiche, alla realizzazione del Max Museo, scandita a colpi di interpellanze e ricorsi di bassa lega. E tuttavia l’edificazione di un teatro o di un museo non basta a spiegare quello che sta succedendo; perché un teatro o un museo sono, come si usa dire con una certa frequenza in questo periodo, riferendosi proprio a quanto sta avvenendo a Lugano o su scala cantonale, dei semplici contenitori, e bisogna poi vedere come li si riempie. I musei possono anche essere perfettamente inutili, e trasformarsi in muti mausolei; i teatri possono offrire cartelloni seriali, acquistati come pacchetti viaggio da qualche agenzia di largo smercio. Anche da questo punto di vista, Chiasso appare sorprendentemente coraggiosa e libera nel programmare le proprie offerte culturali: nulla di prevedibile, nulla di ingessato o di trombonesco, ma il gusto della ricerca e il coraggio di dare la necessaria libertà agli intellettuali chiamati a proporre e a scegliere. Si direbbe che, mentre un po’ in tutto il Cantone e in particolare nei suoi maggiori centri il fatto culturale viene sempre più asservito a una logica turistica, o di rappresentanza politico-economica, Chiasso risulti in felice controtendenza, e affidi proprio alla cultura un ruolo determinante nella progettazione di un futuro civile e condivisibile. Ebbene, se ho iniziato questo ragionamento parlando come un abitante di Lugano che guarda ammirato all’esempio della più piccola ma più vivace Chiasso, devo subito aggiungere un secondo, e per me anche più profondo, motivo di stupore: perché a Chiasso io sono nato e cresciuto, e ogni volta che adesso ci vado rimango incredulo, e mi sembra impossibile che questo esemplare fervore di iniziative si sia sviluppato proprio nel luogo che ricordo come più refrattario ad ogni discorso culturale, e più chiuso in una sua logica segreta di frontiera e di bottega, di ferrovia e dogana e contrabbando. La Chiasso che ho conosciuto, che mi ha segnato e che meglio ricordo era una cittadina di merci e di potere, di piccoli negozi affacciati sul corso principale e di grandi traffici misteriosi; il potere politico-economico con cui ho avuto a che fare controllava attentamente gli abitanti, distribuiva con cura alcuni posti chiave, gestiva qualche istituzione pubblica o sociale come un’agenzia di collocamento e come un’officina del consenso; diffidava istintivamente di ogni slancio culturale, intuendone il potenziale critico. Quando mi capita di raccontare a qualche coetaneo uno dei miei ricordi chiassesi che si riferiscono a questi aspetti, o quando parlo con mia moglie di certe memorie scolastiche, i miei ascoltatori faticano a credermi, o scuotono il capo, come se quei miei racconti parlassero di una realtà inverosimile negli anni ’60 o ’70. Eppure, quando ripenso a quegli anni chiassesi, rammento anche un’altra cosa: la sensazione, che forse avrei avuto anche se fossi vissuto altrove, ma che per me a Chiasso era intensissima, che proprio quegli aspetti, quelle contraddizioni, quelle palesi ingiustizie, finissero per rappresentare, sul piccolo palcoscenico di un paesotto di frontiera, lo spettacolo più vasto del mondo che cercavo di capire. Una volta, rispondendo alle domande di un critico letterario, devo aver detto che, quando da ragazzo mi sono capitati in mano i racconti dublinesi di James Joyce, ho creduto di poter riconoscere quella lontana Dublino, affascinante e terribile, in certi caratteri della mia piccola Chiasso, così diversa non solo dalla turistica e superba Lugano, ma persino dal Magnifico Borgo di Mendrisio: diversa, e forse a suo modo più reale, più atrocemente reale. Lo penso ancora, pur facendo la tara di quell’ingenuità giovanile; e mi domando se Chiasso, per un insieme di fattori geografici, economici e sociali, non porti dentro di sé, da molto tempo, il peso e la forza di un destino; un destino a lungo subìto quasi ottusamente, con rabbia, e che forse oggi sta finalmente affrontando con diversa coscienza, trasformandolo in strumento di conoscenza e di crescita. È solo una domanda; ma si potrebbe anche leggere come un augurio e un ringraziamento.
Pubblicato il
17.12.04
Edizione cartacea
Anno VII numero 51-52
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