Un brindisi con i lavoratori

Campari apre il capitale ai suoi 4.200 dipendenti: le testimonianze di manager e operai

Nell’area industriale di Novi Ligure, lo stabilimento della Campari è uno dei pochi neppure sfiorati da crisi aziendali e licenziamenti. Durante la pandemia, la produzione di bitter e crodini, liquori e spumanti non ha mai rallentato. Nonostante le chiusure e i coprifuoco abbiano ridotto gli aperitivi al bar, il calo dei consumi è stato compensato da un fenomeno nuovo: quello degli spritz domestici. Per questo, alla fine del 2020 i lavoratori hanno ricevuto dall’azienda uno stipendio in più, non in euro ma in azioni della società.


Non si trattava però di un semplice premio di produzione, ma delle prove generali di un nuovo progetto. I manager lo hanno reso noto qualche mese più tardi, quando hanno spiegato a tutti i dipendenti che dal primo gennaio 2022 avrebbero potuto destinare ogni mese una piccola parte del loro salario – dall’1 al 5 per cento lordi – all’acquisto di titoli della compagnia. Le somme sarebbero state versate su un conto bancario, congelate per tre anni e al termine convertite in azioni. L’azienda ne avrebbe aggiunto una in omaggio ogni due acquistate. A gestire l’operazione ci avrebbe pensato una società fiduciaria.


«Abbiamo cominciato a ragionarci su cinque anni fa, pensando che sarebbe stato importante far sentire le persone legate all’azienda in una maniera concreta e tangibile», afferma il responsabile delle risorse umane del gruppo Campari Giorgio Pivetta, che incontro all’ultimo piano del quartier generale di Sesto San Giovanni, costruito dall’architetto ticinese Mario Botta sullo scheletro in stile liberty della vecchia fabbrica. I manager si sono fatti consigliare da alcune società di consulenza, tra le quali la Deloitte, e alla fine hanno deciso di utilizzare un modello di partecipazione finanziaria diffuso in particolare negli Stati Uniti: si chiama Esop, è l’acronimo di employees stock ownership plan e consiste nel favorire la partecipazione azionaria dei dipendenti. Hanno pensato di coinvolgere tutti i lavoratori dei ventidue stabilimenti che hanno in altrettanti paesi del mondo.

 

«Non è stato facile adattare il piano alle diverse legislazioni nazionali», racconta Alessandro Crippa, responsabile del gruppo per il Sud Europa, il Medio Oriente e l’Africa. Alla fine, sono riusciti a raggiungere l’80 per cento dei 4.200 dipendenti, compresi i circa 50 impiegati nella sede svizzera di Baar, lasciando fuori solo Argentina, Cina e Russia, dove le leggi non consentono ai lavoratori di entrare nel capitale delle aziende nelle quali lavorano. Hanno denominato la campagna “Camparista shares”, alludendo al nomignolo con il quale i dipendenti si chiamano fra loro. Poi l’hanno sottoposta all’assemblea dei soci e ai sindacati. La proposta è stata approvata da entrambi.

 

Il sì più convinto è arrivato dalla Cisl, che vi ha visto non solo un modo per mettere più soldi in tasca ai lavoratori ma una “evoluzione delle relazioni industriali su base partecipativa”. «Per noi rappresenta un importante passo in avanti perché, oltre alla partecipazione finanziaria, i lavoratori acquisiscono il diritto a essere informati, possono partecipare all’assemblea generale annuale e prendere decisioni congiunte sul futuro dell’azienda», mi dice il segretario della Fai Cisl della Lombardia Massimiliano Albanese.


I manager della Campari sono invece più cauti. Spiegano che la partecipazione è soprattutto finanziaria e si aggiunge ad altre misure a favore dei dipendenti. «Non vogliamo esagerare il valore di questo strumento, uno dei tanti della nostra filosofia di remunerazione, che prevede diverse misure di welfare per i redditi più bassi», dice Pivetta.

 

Pure Albanese ammette che, se volessero davvero pesare nelle decisioni, «gli operai dovrebbero organizzarsi in maniera collettiva per parlare con una voce unica nelle assemblee». Per ora, si tratta soprattutto di un modo per legare gli aumenti salariali all’andamento della società. Il sindacalista della Cisl ritiene che i sindacati dovrebbero candidarsi a gestire le quote destinate dai lavoratori all’acquisto di azioni, ma pensa che in Italia «non siamo ancora preparati ad affrontare un cambiamento del genere». Dovrebbero abituarsi a un doppio regime, di lotta e di governo, lontano dalla loro cultura e storia.


Ai piani alti della sede di Sesto San Giovanni pensavano, per il primo anno, di non riuscire a convincere più di un lavoratore su tre, per poi arrivare dopo qualche anno al 70-80 per cento. Invece ha detto sì oltre la metà. Per la precisione, hanno deciso di investire nella loro azienda il 51,6 per cento degli operai e degli impiegati. «È un grande risultato per noi», commenta l’amministratore delegato Bob Kunze-Concewitz, in linea con i risultati di altre aziende che hanno adottato piani analoghi. L’Italia è però molto indietro rispetto al resto del continente, a causa della mancanza di una legge e delle continue delocalizzazioni, «non condivise dai dipendenti e favorite dalla mancanza di una armonizzazione fiscale» in Europa, come sostiene la Federazione europea dell’azionariato dei dipendenti (Efes).

 

Appena dieci delle 2.700 compagnie europee che hanno piani di partecipazione azionaria – con 7,1 milioni di lavoratori coinvolti e 420 milioni di capitale nelle mani dei dipendenti nel 2021 – sono italiane, come il colosso dei cavi per l’energia e le telecomunicazioni Prysmian, le assicurazioni Generali e la multinazionale degli occhiali Essilor-Luxottica, dove i sindacati nominano due consiglieri d’amministrazione e un terzo è eletto dall’associazione degli azionisti-lavoratori.

Espansione inimmaginabile
A Novi Ligure l’adesione degli operai è stata massiccia. «Lo hanno scelto anche colleghi che all’inizio erano un po’ scettici», spiega Giuliano Piras, un operaio addetto agli imballaggi. Da quando la società è stata quotata in borsa, nel 2001, le azioni sono cresciute in media del 16 per cento all’anno. Il gruppo ha acquisito una trentina di società del settore e una cinquantina di marchi, dalla tequila messicana al rum giamaicano, passando per il whisky americano e il mirto sardo, ed è diventata la sesta multinazionale al mondo nel settore degli alcolici.

 

Un’espansione che il fondatore Gaspare mai avrebbe immaginato, all’indomani dell’unità d’Italia, mentre sperimentava i primi bitter mescolando spezie provenienti da ogni dove nel retrobottega del Caffè dell’amicizia a Novara, e neppure suo figlio Davide che nel 1932 ebbe l’intuizione di commissionare a Fortunato Depero la bottiglietta che ancora oggi contraddistingue la bevanda.

 

Per questo i lavoratori lo hanno percepito come «un altro modo di investire i propri soldi», più che come uno strumento di partecipazione attiva. Piras, che è nato a Novi Ligure ma appartiene ai cosiddetti “milanesi”, assunti quando la produzione era ancora a Sesto e «c’era una maggiore coesione tra gli operai», dice invece che vuole essere tenuto al corrente delle decisioni societarie. Ha deciso di destinare ogni mese il tre per cento dello stipendio all’acquisto di azioni. La definisce «una scelta ponderata per il futuro», suo e dell’azienda.

Pubblicato il

03.02.2022 15:08
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