Un atto di umana ribellione

Lisa Bosia Mirra in aula di Tribunale per aver aiutato dei migranti a varcare la frontiera illegalmente

Lisa Bosia Mirra è stata condannata a 80 aliquote e una multa di mille franchi per aver favorito illegalmente l’entrata, il soggiorno e la partenza a 24 stranieri nell’estate 2016, quando i migranti respinti dalla Svizzera si erano accampati a Como. Il giudice Siro Quadri della Pretura penale del Canton Ticino ha dunque confermato la condanna contenuta nel decreto d’accusa emesso dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo, contro cui la Bosia aveva ricorso.

Nel articolo che segue ci siamo focalizzati sul contesto in cui si svolti i fatti imputati a Bosia Mirra. Non perché consideriamo la sentenza irrilevante, ma nella convinzione che il verdetto definitivo lo formuleranno i posteri, quando giudicheranno in chiave storica il comportamento della società odierna nell’affrontare le ragioni del flusso migratorio, che di emergenziale ha solo l’incapacità di gestirlo.

 

«La decisione di portarli è nata quando non vedevo altre soluzioni dopo averle provate tutte». Per capire appieno la frase di Lisa Bosia Mirra pronunciata davanti al giudice lo scorso giovedì, occorre tornare con la mente a quei giorni dello scorso anno, quando la via della speranza dell’umanità in fuga lungo la via balcanica era stata interrotta da fili spinati e manganelli. Ma come l’acqua che scorre non si arresta, il flusso dei migranti si era suddiviso in mille rivoli. Uno di questi si era trovato bloccato da un nuovo “muro”, il confine sud della Svizzera, prontamente blindato dalle autorità cantonali e federali.
I respinti, centinaia di uomini, donne, bambini e adolescenti, si erano accampati nel parco antistante alla stazione di Como in attesa di riuscire a proseguire il loro viaggio verso nord. Abbandonati a sé stessi, senza assistenza sanitaria, senza servizi igienici, cibo e vestiti, dormivano sotto il cielo stellato.


Uno stato d’abbandono che mise in moto un’altra umanità, quella incapace di accettare passivamente di vedere i propri simili costretti a vivere in quelle condizioni. Cittadine e cittadini, residenti sui due lati del confine, si misero in moto spontaneamente per portare solidarietà alle persone accampate, consegnando beni di prima necessità e conforto morale. Tra queste persone vi era anche Lisa Bosia Mirra, tra le prime ad attivarsi e arrivare a Como. E capire, o almeno tentare, che cosa stesse succedendo al confine svizzero. «C’era qualcosa che mi sfuggiva. Sono andata diverse volte a parlare con le guardie di confine, per capire che cosa non funzionava» ha spiegato Lisa Bosia al processo di Bellinzona. A non quadrare era il tasso di respingimento, di rinvio in Italia dei migranti, particolarmente alto se paragonato ai periodi precedenti. «A Chiasso da inizio luglio le guardie di confine hanno rifiutato l’entrata al 60% delle persone senza documenti d’identità validi; in precedenza il tasso era del 10%» aveva spiegato Amnesty International, una delle numerose Ong che avevano sollevato dei dubbi sulla prassi adottata dalle autorità elvetiche, benché la legge e i migranti in arrivo fossero identici. La legge prevede che se il migrante annuncia di voler richiedere asilo, i doganieri hanno l’obbligo di consegnarlo alla Segretaria di stato della migrazione nel centro di registrazione di Chiasso. Visto l’alto numero di rinviati in Italia mentre parallelamente diminuiva il tasso delle domande di asilo in Svizzera, crescevano i sospetti che le persone richiedenti l’asilo in Svizzera fossero consegnate dai doganieri alla forze di polizia italiane invece di essere accompagnate al centro di registrazione della Sem. I vertici del corpo delle guardie di confine hanno sempre contestato questi sospetti e mai nessuno è riuscito a dimostrare con prove certe il contrario.


Le Ong però insistevano e corroboravano i loro sospetti con un numero crescente di testimonianze di rifugiati respinti illegalmente. Sotto accusa, la procedura di riammissione semplificata con cui le guardie di confine consegnavano alle autorità italiane quelli considerati non rifugiati.


Tra di loro, molti minorenni. Lo aveva certificato anche l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che a Como aveva quantificato la metà dei presenti nel parco della stazione come minori non accompagnati. Dei minorenni e delle donne particolarmente vulnerabili a vari pericoli, tra cui quello di finire vittime della criminalità organizzata nella prostituzione. In un rapporto dell’Associazione italiana per gli studi giuridici sull’immigrazione, si documentava che «presso la Parrocchia di Rebbio di don Giusto il 9 agosto sono stati collocati 43 minori stranieri non accompagnati respinti dalle autorità svizzere, il giorno successivo ne sono stati collocati 32, e in altre 15 giornate tra metà luglio e la terza settimana di agosto sono stati collocati gruppi di minori non accompagnati compresi tra un minimo di 15 e un massimo di 28 individui».
Tanti, troppi, giovani vittime di quelle “zone grigie” (mai indagate dalla magistratura) in cui si muovevano le autorità svizzere ma anche italiane. Uomini, donne e minori respinti alla frontiera con la Svizzera venivano caricati due volte alla settimana su pullman scortati dalla polizia a Como e inviati nel centri di accoglienza di Taranto. Viaggi dai costi elevati ma inutili poiché una volta arrivati nell’hotspot di Taranto, si “scopriva” che i migranti erano già stati registrati lì o in analoghe strutture. E dunque tornavano indietro appena riuscivano a racimolare i soldi del biglietto.


«Io non ce l’ho fatta più – ha scritto Lisa Bosia Mirra nel memoriale consegnato al processo –. Mi è pesato il privilegio, io avevo il librettino rosso, quello con la crocetta svizzera e andavo avanti e indietro, ogni sera. E dormivo a casa in un letto. Io non ho visto la guerra, non ho patito la fame, non sono cresciuta in un campo profughi, non ho attraversato il Sahara, non ho bevuto acqua allungata con benzina per 21 giorni, non ho dovuto seppellire gli amici nel deserto, non sono stata arrestata dai libici, non sono stata picchiata, stuprata, torturata, non ho dovuto pagare riscatti. Io non ho affrontato il mare su una barca sovraccarica, non sono stata pigiata in una stiva nauseabonda di vomito, non ho viaggiato con un cadavere di fianco, non ho perso nessuno. Non ce l’ho fatta più, semplicemente». E dunque la scelta di reagire compiendo un atto di ribellione contro quel sistema inumano. Forse lo sbocco naturale di una storia di vita personale, in gran parte trascorsa proprio nell’impegno professionale e volontario a fianco dei migranti.

 

Con queste parole Lisa Bosia Mirra si è congedata dal giudice: «Chi dice che io sia un’eroina o una pericolosa criminale, sbaglia. Sono una persona semplice che ha fatto delle scelte, alcune consapevoli e altre “imposte” dalla mia storia personale. Non avevo scelta».

 

Lisa Bosia Mirra, granconsigliera socialista e personaggio pubblico che non aveva lesinato critiche alla politica dei respingimenti, difficilmente sarebbe riuscita a sfuggire all’enorme apparato di sorveglianza del confine organizzato da autorità cantonali e federali in quella calda estate. «Intervenire o non intervenire hanno entrambi un prezzo. Preferisco pagarlo intervenendo». Il prezzo da pagare per Lisa Bosia Mirra è quello che gli ha presentato la magistratura ticinese per «ripetuta incitazione all’entrata, alla partenza e al soggiorno illegale» di 24 cittadini stranieri. Per questi fatti, è stata condannata a 80 aliquote e una multa di mille franchi con un decreto emesso dalla procuratrice pubblica Margherita Lanzillo. Lisa Bosia non ha contestato i fatti, ma la condanna sì, e dunque giovedì 21 settembre si è presentata davanti a Siro Quadri, giudice della Pretura penale di Bellinzona. Il giovedì successivo, il giudice ha letto la sentenza che conferma in toto il precedente decreto della procuratrice Lanzillo.


La sentenza al giudice, il verdetto ai posteri, mentre ai presenti resta la materia su cui riflettere.

Pubblicato il

28.09.2017 11:20
Francesco Bonsaver