Un approccio critico al Festival

Libero lo è stato e lo è davvero, il Festival di Locarno. Uno spazio che, tranne i primi anni in cui il Festival era strumento di promozione turistica e non manifestazione culturale, fuori dalle logiche dominanti ci è stato sempre e ci è tuttora. È questo percorso di affrancazione e difesa della propria autonomia che traspare con nitidezza dal volumetto “Un Festival libero”, appena pubblicato per Il Castoro a cura di Domenico Lucchini in occasione di una retrospettiva sulla storia della rassegna locarnese in corso a Milano fino a domenica. Il lavoro di Lucchini è nato come catalogo di questa retrospettiva, per cui i testi sono brevi e scorrevoli. Una lettura non impegnativa dunque, ma tutt’altro che disimpegnata. E indicata in particolare per chi vuole farsi un’idea chiara della storia, dell’evoluzione e di alcuni problemi aperti del Festival di Locarno senza dover riandare a volumi ponderosi più o meno recenti. “Un Festival libero” dopo l’introduzione del curatore propone una serie di brevi contributi suddivisi in tre parti. Nella prima tre critici milanesi (Morando Morandini, Paolo Mereghetti e Gianni Canova) ritracciano per grandi linee la storia del Festival. Nella seconda parte seguono le interviste ad alcuni direttori del Festival (Freddy Buache, David Streiff, Marco Müller e Irene Bignardi con l’attuale presidente Marco Solari) sulla loro idea di Festival ed un ritratto del primo, vero e spesso incompreso direttore, Vinicio Beretta, colui che nel periodo 1960-65 trasformò la rassgena in un evento cinematografico e culturale più che mondano. L’ultima parte propone una serie di riflessioni ad ampio raggio sulla funzione del Festival. Completano il volume le schede sui film della retrospettiva milanese, diverse fotografie e i brevi ricordi di una ventina di registi che hanno portato i loro film a Locarno nel corso degli anni. Il volume curato da Lucchini è quasi inevitabilmente molto discontinuo, vista l’eterogeneità dei contributi ospitati. Ci sono però pagine senz’altro interessanti, come quelle scritte dall’architetto Livio Vacchini sulla prima edizione in Piazza Grande (col gustoso episodio della bandiera sovietica appesa assieme a quella americana sull’asta del Municipio). O come quelle di Pietro Bellasi che, parlando del Festival come rito, dà forse la più chiara definizione della sua funzione collettiva: «un magnete, una macchina di socializzazione dove l’amalgama è dato dalle diversità culturali che dimostrano quanto il loro affollarsi insieme, per poche ore, come semplice pubblico attento, consapevole e critico, possa prefigurare una formidabile energia mite e pulita di resistenza contro il flagello della discriminazione e della reciproca aggressività». Ma “Un Festival libero” ha soprattutto, come ammette Lucchini, il privilegio di non dover assecondare un giubileo e di non essere edito direttamente dal Festival, ciò che gli permette un approccio anche critico. Lo fa lo stesso curatore nell’introduzione, alludendo alle trionfanti cifre di spettatori in aumento che ogni anno suggellano la manifestazione: «porre l’accento sulla partecipazione e sulla redditività della manifestazione rischiando di porre in secondo piano il suo aspetto culturale e artistico è un pericolo sempre in agguato, un paradosso che non ne decreterebbe ancora il suo pieno successo e la sua completa maturità». Per non parlare dell’eterno dibattito della presenza del Festival sul territorio: «ci si deve anche chiedere come rendere questo importante avvenimento meno festivo e più feriale, meno episodico e più continuo, ancora più culturale e meno evenemenziale». Una questione che, in realtà, i vertici del Festival, tranne Marco Müller e Giuseppe Buffi, hanno sempre affrontato quasi con fastidio, come se la cosa superasse le possibilità della rassegna. E proprio Müller, nell’intervista che compare nel volume, allude alla sua idea, cui mai s’è cercato di porre mano, di conservare in Ticino le copie dei film acquisite dal Festival, invece di depositarle alla Cineteca di Losanna. O alla possibilità, mai realizzata, di circuitare le retrospettive nei cineclub ticinesi e svizzeri. Ma un altro progetto di radicamento nel territorio, questa volta realizzato, quello della Fondazione Montecinemaverità, avrebbe meritato di non essere ignorato in questo volume, a maggior ragione oggi che il destino della Fondazione, nell’indifferenza generale, pare segnato. Era quello anche un modo per dare al Festival la possibilità di percepire cosa sta accadendo nel mondo del cinema di riferimento per Locarno: la rinuncia a questa “sentinella avanzata” è incomprensibile e necessiterebbe qualche riflessione. L’ultimo dei contributi pubblicati è anche uno dei più interessanti. È quello di Michele Dell’Ambrogio sull’esperienza di Cinema e Gioventù, che da «cuore pulsante» del Festival sembra diventato «un soprammobile di cui non si ha il coraggio di sbarazzarsi». Eppure da un diverso e non subalterno coinvolgimento dei giovani nella rassegna potrebbe venire qualche utile stimolo al suo rilancio in termini culturali: basti pensare ai palmares della loro giuria, che spesso meglio di quella ufficiale hanno saputo respirare l’aria dei tempi, non solo cinematografici. Questo però è un auspicio che sembra destinato a rimanere tale.

Pubblicato il

08.10.2004 04:30
Gianfranco Helbling