Il 2021 in Svizzera è un anno di ricorrenze a cifra tonda per quanto riguarda i diritti delle donne: si festeggiano infatti i 50 anni di diritto di voto, i 40 dell’introduzione dell’articolo costituzionale sulla parità e i 30 dal primo sciopero delle donne del 1991. Ma a soli due anni dal secondo grande sciopero femminista la situazione in ambito di parità è tutt’altro che migliorata e oggi un altro sciopero si rende necessario.
Guardando alle date delle conquiste dei diritti delle donne in Svizzera ci si rende conto della lentezza con la quale si procede sulla strada della parità e ripensando alle lotte decennali di generazioni di attiviste si ha un’idea dell’energia e della perseveranza che servono e sono servite per conquistare ogni minimo passo verso una società più paritaria. Pensiamo al diritto di voto e di eleggibilità per le donne, che ha richiesto oltre un secolo di lotte, anche aspre, per far passare un principio che, quando accettato anche dagli uomini svizzeri nel 1971, era già un dato di fatto nella maggior parte dei paesi. Pensiamo alla soluzione dei termini nel diritto all’aborto (un diritto che ancora oggi è costantemente minacciato), accettata dal popolo solo nel giugno del 2002 e dopo decenni di dibattiti (se ne cominciò a discutere ai primi del ‘900). Oppure al congedo maternità che esiste da meno di vent’anni, anche se era dal 1945 che la Costituzione federale imponeva alla Confederazione di introdurre un’assicurazione maternità a livello nazionale, e che solo dopo molteplici tentativi, il 3 ottobre 2003 è stata finalmente approvata in votazione (ed entrata in vigore il 1° luglio 2005). Un congedo maternità che comunque resta tra i più miseri d’Europa. Così come ci sono voluti tempo ed energia per arrivare all’articolo Costituzionale sull’uguaglianza del 14 giugno 1981 e alla Legge sulla parità in vigore dal 1996, che di fatto però non hanno ancora portato ad un effettiva parità di genere e nel 2021 le donne sono ancora costrette a lottare, rivendicare e ribadire il diritto ad essere trattate in modo paritario. Infatti, a soli due anni da uno storico sciopero che ha visto scendere in piazza mezzo milione di persone a sostegno della parità, per molti aspetti siamo ad un punto ancora peggiore di quanto non lo fossimo già nel 2019: nonostante dalla pandemia sia emersa l’importanza di molte professioni in cui le donne sono in maggioranza, che sia appurato che spesso queste professioni siano caratterizzate da salari bassi, da mancanza di personale e da una precarietà dilagante, la discriminazione salariale è addirittura aumentata e non vi sono stati miglioramenti nelle condizioni di lavoro, anzi, con la scusa della crisi innescata dal Covid molte donne sono state licenziate e molte altre continuano a lavorare in condizioni precarie. Nel 2019 tra le rivendicazioni dello sciopero c’era la diminuzione dell’orario di lavoro per uscire dalla trappola del tempo parziale e poter suddividere meglio il lavoro non remunerato tra uomini e donne, ma per ora nulla si muove su questo fronte nell’Agenda politica, che al contrario con Avs 21 chiede alle donne di lavorare di più mandandole in pensione a 65 anni. Un principio che il Consiglio federale ha pure avuto la sfacciataggine di inserire nella Strategia per la parità 2030. E non è per capriccio che le donne non vogliono lavorare fino a 65 anni: già ora il divario delle rendite tra uomini e donne è una realtà, con un terzo di rendita Avs in meno per le donne, che nel secondo pilastro arriva addirittura al 50 per cento in meno e una donna su dieci deve chiedere subito prestazioni complementari appena va in pensione per poter sbarcare il lunario. Questo è il risultato di tutte le discriminazioni alle quali sono confrontate le donne nel corso della loro vita attiva: disparità salariale, svalorizzazione dei mestieri a predominanza femminile, tempi parziali, il cosiddetto “soffitto di vetro”, il lavoro domestico, educativo e di cura che ancora oggi viene assunto per il 70 per cento dalle donne. Aumentare i salari delle donne vuol dire anche aumentarne i contributi e quindi le rendite Avs, e senza dover alzare l’età di pensionamento. Un importante tassello per un’effettiva parità di genere è quello della conciliabilità tra lavoro e famiglia: l’accesso delle donne ad un lavoro retribuito è spesso limitato dalla disponibilità di posti per la cura dei figli. Secondo uno studio di Pro Familia del 2020, il 70 per cento delle madri che lavorano vorrebbe aumentare la propria percentuale lavorativa se le strutture di accoglienza extra-familiare per i bambini fossero più accessibili sia in termini di posti liberi che di costi. Cosa ne pensa di questa situazione chi da decenni si batte per la parità di genere? Lo abbiamo chiesto ad Anita Testa-Mader, ricercatrice psicosociale, quasi settantenne, attiva nei movimenti femministi e femminili fin dagli anni Settanta: «Certo leggendo questo bilancio non c’è da rallegrarsi, ma piuttosto da mettersi le mani nei capelli e chiedersi se tutto ciò che abbiamo fatto sia stato tempo sprecato. Queste cifre e queste descrizioni della situazione attuale, in particolare relative alle conseguenze del Covid per le donne, mi spingono però ad alcune considerazioni più generali: prima di tutto confermano ai miei occhi che la lotta per la parità è ancora più attuale che mai (e per parità non intendo una pretesa “uguaglianza” con gli uomini, ma una reale possibilità di scelta per tutte e tutti a livello formativo, professionale, di relazione di coppia, sessuale, insomma nella realizzazione dei propri desideri nella vita); che non basta dire che si tratta di realizzare dei cambiamenti solo sul piano culturale e che questi sono per definizione lenti: sono sempre convinta che sia necessario un femminismo che colleghi l’importantissima lotta contro gli stereotipi a tutti i livelli - pensiamo solo all’educazione delle bambine e dei bambini - a rivendicazioni concrete di cui possano beneficiare anche la maggioranza delle donne e non solo poche donne politiche o manager ai vertici della carriera (il cosiddetto femminismo del 99%). E continuo a pensare che questo sia possibile solo nel contesto di lotte per un reale cambiamento sociale: i salari, l’età Avs e le pensioni, per non fare che pochi esempi, sono proprio il simbolo della necessità di questo cambiamento radicale», spiega la ricercatrice. C’è però speranza nelle lotte che continuano nonostante tutto: «Quello che mi consola se penso al mio percorso e a quello di tante mie coetanee, a volte un po’ stanche e scoraggiate, è vedere che - dopo decenni di politiche dei “piccoli passi”- negli ultimi anni migliaia e migliaia di giovani e giovanissime in tanti paesi sono ri-scese in piazza e si organizzano per dire no ai tentativi di rimettere in discussione dei diritti che sembravano acquisiti - ad esempio sul tema dell’aborto -, per denunciare ogni tipo di violenza contro le donne e per esprimere a gran voce la volontà di prendere in mano le loro vite (e perché non farlo anche noi con loro per quanto ancora possibile, magari con le nostre figlie e nipoti?)».
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