Un’altra politica economica per favorire la domanda interna

Piluccando qua e là le varie predizioni, non solo svizzere, infarcite, senza esprimersi sui se (se il virus e le sue varianti...) e sui ma (ma se le forniture di vaccini e le vaccinazioni...), sembra emergere una sentenza comune: la ripresa sarà più dipendente di prima dalla dinamica della domanda interna. Domanda di beni e servizi prodotti in casa, insomma.

 

Un cambiamento di paradigma, quando la crescita è stata spesso sinonimo di esportazioni. Sentenza che discende logica da una osservazione pure comune: il mondo è divenuto meno cooperativo, molto dubbioso sugli effetti della globalizzazione, ogni paese è indotto a risolvere a suo modo i problemi, anche puntando su una politica di sostituzione delle importazioni. È ciò che ha fatto subito la Cina, concentratasi sul proprio immenso mercato interno per uscirne ed è ciò che promette Biden, puntando sulla ripresa interna con ulteriore forte crescita del debito e una profusione di dollari da spendere “ad personam”. Per un’economia come quella svizzera, fortemente dipendente dalle esportazioni, non è una allegra prospettiva. Può però porre qualche utile cambiamento di politica economica.


Le stesse predizioni ci fanno capire che rimarranno tre problemi su cui concentrarsi: i rischi immediati che peseranno sull’attività e sull’occupazione, l’impatto degli innegabili capovolgimenti sugli equilibri economici mondiali, l’aggiustamento di regole imposte negli ultimi anni accettando ad esempio un maggior tasso di inflazione (un aumento generalizzato dei prezzi).


In termini più semplici diremmo che la crisi sanitaria ha duramente alterato il comportamento della domanda, in particolar modo nel settore dei servizi (si pensi solo al turismo, alla ristorazione, ai trasporti ecc.). I prezzi tendono per ovvie ragioni al ribasso. Non è però un segno di profittabilità immediata per la domanda (il consumo). È piuttosto un rischio di deflazione. Cioè di un calo del livello generale dei prezzi dovuto alla minor spesa di consumatori e aziende, all’eccessiva propensione al risparmio, al non investimento. E al maggior ricorso alla speculazione: possono infatti essere significativi i corsi esplosivi di oro, argento, gioielli, classici beni rifugio o l’aumento alle volte vertiginoso di alcuni corsi borsistici o dei valori immobiliari, in contrasto con l’andamento economico. E inoltre una diminuzione del potere contrattuale dei salariati o una pressione maggiore sui redditi salariali. Che non creeranno certamente una maggior propensione al consumo e quindi l’impulso auspicato sulla domanda interna. Anzi, l’impressione (assurda) che se ne ricava è che, data la situazione che accomuna maggior tendenza all’aumento della disoccupazione e deflazione, il mercato del lavoro e i lavoratori finiranno per essere malmenati per qualche tempo.


È vero, non si potrebbe escludere uno scenario diverso. Una liberazione consumistica o una politica economica che con varie modalità di bilancio pubblico o di politica monetaria o fiscale (v. l’accenno fatto a Biden), punti decisamente sul promovimento della domanda interna, mollando anche gli ormeggi sinora tenuti stretti del rischio-inflazione (quindi: aumento domanda, aumento dei prezzi, aumento dei salari). E non temendo troppo l’indebitamento pubblico, considerando che i margini di manovra sono ancora ampi (come potrebbe essere l’acquisto di obbligazioni della Confederazione da parte della Banca Nazionale con interessi a tasso zero) o che l’indebitamento può essere inteso non come una penalità, ma un investimento per il futuro. Anche per la democrazia.

Pubblicato il

21.01.2021 11:04
Silvano Toppi