Un aiuto alle multinazionali

I Paesi sviluppati, Svizzera compresa, fanno pressione per includere negli accordi dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) quello sugli investimenti. Molti Paesi in via di sviluppo non ne vogliono sapere perché perderebbero il loro potere di regolazione a vantaggio delle multinazionali, i cui diritti aumenterebbero. Un accordo multilaterale sugli investimenti (Ami): l’idea non è nuova, a partire dalla Conferenza del Gatt nel 1982 a quella dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Omc) a Doha nel 2001, è passata attraverso numerosi cicli di negoziazione. A Doha, all’ultimo minuto, con una trattativa che sapeva di ricatto e contro la volontà dei Paesi in via di sviluppo, i Paesi sviluppati hanno messo all’ordine del giorno i temi detti di “Singapore”: investimenti, politica della concorrenza e trasparenza dei mercati pubblici. Mentre gli impegni assunti non sono stati mantenuti, a Cancun i ministri decidono se lanciare i negoziati sugli investimenti. Un momento cruciale, ben conoscendo il peso delle multinazionali nel processo di mondializzazione ed i danni che un trattato simile, l’Accordo di libero scambio nordamericano (Alena), ha causato in un paese come il Messico. L’introduzione di un Ami permetterebbe due cose all’Omc. Da una parte di allungare ulteriormente i suoi tentacoli sull’economia mondiale. Dall’altra di completare la liberalizzazione degli investimenti avviata nell’ambito dei servizi (Gats), dei diritti sulla proprietà individuale (Trips) e dell’accordo Trims (misure sugli investimenti e legate al commercio). Ue, Giappone, Corea del Sud e Svizzera stanno spingendo in questo senso, sostenute dalla potente Camera internazionale del Commercio (Cic). Ma un gran numero di paesi in via di sviluppo, sostenuti da numerose Ong, vi si oppone. Gli argomenti dei fautori di un Ami all’Omc sono di due tipi. Primo: offrire condizioni trasparenti e stabili a lungo termine stimola il flusso d’investimenti stranieri verso i Paesi del Sud. Secondo: gli investimenti stranieri, stimolando la crescita, contribuiscono allo sviluppo dei Paesi ospitanti. La realtà però è più complessa. Questi postulati di fede neoliberista non resistono alla prova dei fatti e sono smentiti da numerosi studi. Prima di tutto un Ami non rende necessariamente un Paese più attrattivo per gli investitori. Sono 49 i Paesi meno avanzati, tutti africani, che hanno firmato circa 300 accordi bilaterali e hanno fortemente liberalizzato i loro mercati, ma essi ricevono solo il 2 per cento degli investimenti diretti ai Paesi in via di sviluppo; inoltre quattro di loro, quelli con risorse petrolifere, si accaparrano la metà della torta. Al contrario, la Cina non ha bisogno di far parte di nessun accordo per attirare in massa gli investitori. I fattori determinanti sono altri: stabilità politica e sociale, grandezza e potenziale dei mercati, qualità e costo della mano d’opera, eccetera. In realtà gli investimenti diretti sono molto concentrati e mal distribuiti tra i Paesi del Sud: nel 2001 il 62 per cento è andato a soli cinque Paesi, tra cui Cina, Africa del Sud e Messico. Pur ammettendo che gli investimenti stranieri possono contribuire alla crescita, essi non assicurano uno sviluppo sostenibile. Gli interessi delle multinazionali (conquista di mercato, profitti elevati e rapidi) raramente coincidono con quelli del Paese ospite ed il bilancio ecologico e sociale delle multinazionali nei Paesi del Sud lascia spesso a desiderare. Vi sono sì benefici quali l’apporto di capitali, la creazione di impieghi, il trasferimento di conoscenze, ma anche costi e rischi: problemi nella bilancia dei pagamenti, controllo straniero sulle risorse naturali, messa in pericolo delle imprese locali, eccetera. Per ogni dollaro investito in un Paese in via di sviluppo, 30 centesimi (75 nell’Africa sub sahariana) ripartono sotto forma di rimpatrio del profitto. Uno Stato deve avere il diritto di selezionare e orientare gli investimenti stranieri a seconda dei bisogni della sua popolazione e dei suoi obiettivi di sviluppo. Ebbene, i Paesi in via di sviluppo temono che questo non sarà più possibile con un Ami e che perderanno la loro capacità di regolamentazione. Non si tratta di paure infondate. Secondo i principi dell’Omc – che impongono di trattare tutte le imprese allo stesso modo – non sarà più possibile preferire un investitore perché più ecologico o sociale, sostenere ditte indigene, imporre obblighi agli investitori stranieri in materia di impiego e formazione della manodopera locale, di transfer di tecnologia o di uso privilegiato di merce autoctona. Sono previste misure di protezione, ma i Paesi del Nord hanno annunciato che dovranno essere “eccezionali”. Per Bhagirath Lal Das, già rappresentante per l’India al Gatt, è chiaro che «lo scopo di un Ami all’Omc non è quello di stimolare gli investimenti nei Paesi in via di sviluppo, ma di rafforzare e proteggere i diritti degli investitori stranieri, affinché essi possano stabilirsi ed operare nel modo più libero possibile; si disciplinano i governi, non gli investitori». Riassumendo, se un accordo multilaterale sugli investimenti e sulle multinazionali è necessario (e tale da definirne non solo i diritti, ma anche i doveri), allora il suo posto non è all’Omc, ma all’Onu. Le asimmetrie strutturali ed i rapporti di forza all’interno dell’Omc sono tali che un Ami non potrebbe essere che ingiusto e contrario agli interessi dei Paesi del Sud. Tanto più che questi, già schiacciati sotto il programma sovraccarico di Doha, non hanno le risorse per trattare seriamente un dossier così complesso. «Invece di aggiungere nuovi temi, che mettono in pericolo il processo in corso, l’Omc farebbe meglio a concentrarsi sulla realizzazione degli accordi esistenti, dove restano da fare molti progressi» dice Edward Chisanga, delegato dello Zambia. Per saperne di più: www.investmentwatch.org * Comunità di lavoro Swissaid, Sacrificio Quaresimale, Pane per tutti, Helvetas, Caritas, Aces. Traduzione Daria Lepori

Pubblicato il

12.09.2003 04:00
Michel Egger