La parità salariale tra uomo e donna è, come si sa, ben lontana dall’essere realizzata. Eppure, invece di rafforzare i controlli sull’applicazione della legge, la politica decide di indebolirli. È questo il segnale lanciato ieri dalla maggioranza del Consiglio nazionale (riunito in sessione speciale per 3 giorni), approvando, con 118 voti contro 72, una mozione del liberale lucernese Peter Schilliger per l’adozione di criteri che consentono di “abbellire” le analisi della parità salariale all’interno delle imprese. “Un segnale devastante, una decisione inaccettabile”, commenta il sindacato Unia in una presa di posizione. L’atto parlamentare propone infatti una modifica d’ordinanza tesa a escludere le indennità per lavoro pesante (a turni e per servizi di picchetto) dalle componenti rilevanti del salario ‘se l’impresa dichiara che non sono discriminatorie per quanto riguarda la loro natura e il loro importo e che i collaboratori hanno accesso ai lavori in questione indipendentemente dal loro sesso’, recita il testo proposto. Si tratterebbe insomma di non più considerare tali indennità come elementi della retribuzione. Il motivo? In alcune realtà, “per esempio nell’industria o nel settore della sicurezza, sono molti di più gli uomini che lavorano a turni, per varie ragioni indipendenti dalla volontà del datore di lavoro” e “questa forte prevalenza deforma il risultato dell’analisi della parità salariale” a tal punto che le imprese “non superano l’esame pur agendo in maniera corretta”, argomenta Peter Schilliger nella sua mozione. Una tesi questa però respinta dallo stesso Consiglio federale: «Per analizzare la parità salariale tra uomini e donne all’interno di un’azienda devono essere considerate tutte le componenti del salario, comprese le indennità», ha spiegato in aula il capo del Dipartimento federale di giustizia e polizia Beat Jans, precisando come a stabilirlo siano «la dottrina e la giurisprudenza, sulla base della Costituzione e della Legge sulla parità». «Anche dalle indennità, in caso di disparità ingiustificate, possono risultare delle discriminazioni salariali», ha rammentato il consigliere federale chiedendo (inutilmente) al plenum di bocciare la mozione. Unia: inasprire la legge e non indebolire gli strumenti per applicarla Con la sua adozione “si compromette l’applicazione del principio della parità salariale”, denuncia il sindacato Unia ricordando come già oggi numerose aziende non si attengano ai requisiti previsti dalla legge: “Un quinto delle aziende soggette all’obbligo di analisi non ha effettuato le analisi prescritte, un terzo non le ha fatte controllare e la metà non le ha pubblicate”. “La mozione permette alle aziende di distorcere le loro analisi salariali e di ignorare deliberatamente le discriminazioni. Il fatto che questo attacco alla legge sulla parità sia sostenuto anche da associazioni padronali come Swissmem mostra quanto sia scarsa la volontà di attuare concretamente la parità salariale”, sottolinea ancora Unia. E questo in un contesto in cui “la differenza salariale media tra uomini e donne resta del 17,5 per cento, di cui quasi la metà non è spiegabile da fattori oggettivi”. Ci si dovrebbe dunque muovere nella direzione opposta: “Serve un inasprimento della legge, non un indebolimento degli strumenti per applicarla”, conclude Unia, invitando la politica a prendere “finalmente sul serio” la questione, “non negoziabile”, della parità salariale. Un messaggio chiaro al Consiglio degli Stati, che pure prossimamente dovrà esprimersi. |