Un “Ponte” per l’integrazione

“Ecco il nostro giornalista!”, questo è il riconoscimento più gratificante per Zlatko Hodzic, ideatore e conduttore de “Il Ponte”, la trasmissione dedicata ai problemi d’integrazione degli stranieri e alla lotta al razzismo, in onda ogni venerdì, alle 21 su TeleTicino. Si perché Hodzic così si sente: il giornalista di tutti gli stranieri in Ticino a cui lui dà voce e visibilità dall’ottobre del 2003. Nel novembre del 2005, insieme ad altri due progetti, il suo programma ha ricevuto il Premio svizzero per l’integrazione (vinto anche da Radio RaBe: cfr. articolo a destra) e lo scorso 24 febbraio ha celebrato la sua centesima puntata. Peculiarità de “Il Ponte” è la sua apertura verso tutte le comunità straniere, il farle interagire con le realtà locali. Un’unicità questa che ha mosso la Commissione federale degli stranieri a dichiararla progetto-pilota a livello svizzero. Proveniente da Mostar (Bosnia Erzegovina), famosa per il suo ponte antico distrutto durante la guerra dei Balcani (’93) e poi ricostruito, Hodzic ha voluto ricordare quel simbolo di collegamento tra le diverse anime della città battezzando la sua trasmissione “Il Ponte”. Da cosa nasce l’esigenza per Zlatko Hodzic di creare un programma sull’integrazione? Quando all’inizio del 1992 sono arrivato in Svizzera con mia moglie e mio figlio ho detto loro che mai e poi mai saremmo ricorsi all’assistenza sociale. E così è stato: ho messo da parte il mio essere un giornalista professionista e ho cercato lavoro dappertutto. Dopo alcune occupazioni temporanee sono stato assunto in una fabbrica di ferri da stiro di Bioggio dove ho lavorato alla catena di montaggio per 5 anni. Ho sperimentato sulla mia pelle cosa comporti essere straniero, essere guardato con sospetto o con poca considerazione. Ma al contempo vedevo intorno persone che, pur condividendo la stessa realtà lavorativa, non riuscivano a comunicare fra loro. Ed è a quel punto che ho cominciato ad elaborare l’idea di creare una finestra mediatica dalla quale sia stranieri che svizzeri potessero affacciarsi per far conoscere gli uni agli altri le proprie esigenze, problemi, lingue e modi di vita. Sapevo che il mezzo televisivo – capillarmente diffuso in tutte le case – era l’ideale cassa di risonanza, lo spazio in cui poteva sperare di avvicinare le comunità straniere a quelle autoctone e viceversa. Quali erano i suoi pensieri in quella fabbrica? Mi chiedevo: perché gli svizzeri sembrano far di tutto per non capirci? Perché agli sportelli degli uffici ci guardano storto o ci parlano in dialetto sapendo di metterci in difficoltà? E perché si va sempre più radicando il pregiudizio che gli stranieri sono dei mangiapane a tradimento o, peggio ancora, quasi tutti spacciatori soprattutto se hanno la pelle nera? Questi ed altri pensieri, interrogativi mi ronzavano in tutti quegli anni. La quotidianità mi rafforzava nell’idea che solo una conoscenza reciproca, il trovare un terreno di scambio comune poteva disinnescare questi pregiudizi e razzismi. E oggi a distanza di tempo, cosa pensa? Che bisogna lavorare tutti i giorni per l’integrazione. Non serve – come fa l’amministrazione pubblica – organizzare, una tantum, un seminario o un corso-lampo sull’interculturalità. Questi sono atti spesso concepiti per lustrarsi davanti all’opinione pubblica. Ciò che manca a chi sta dietro agli sportelli pubblici, alla polizia, ai funzionari degli enti è la comprensione verso chi muove i primi passi in un territorio a lui sconosciuto e che troppe volte sente come ostile. Quanto incide il possedere una biografia personale a cavallo tra due (o più?) culture nella comprensione dei temi che lei tratta? La mia stessa nascita è frutto di un’unione multiculturale: madre cattolica e padre musulmano seppur non praticanti. Quanto sono arrivato qui in Svizzera il presidente della Confederazione Flavio Cotti mi chiese “di che religione sei?”, gli risposi “pinguino”, mi ribatté “pinguino non ha senso”, beh contrattaccai “non ha senso neanche la sua domanda”. Io sono convinto che la religione sia un fatto privato, vengo da una cultura, quella della ex-Jugoslavia, dove convivevano , fianco a fianco, etnie, religioni e lingue diverse. Prima che la guerra avvelenasse il paese, ho frequentato feste ortodosse, ebraiche, musulmane e mai nessuno lì ti chiedeva “di che religione sei?”. L’essere figlio di questa esperienza mi ha sicuramente avvantaggiato nel mio attuale lavoro". Che riscontro ha avuto finora la trasmissione? Dopo sole cinque puntate mi fermavano per strada per dirmi “ecco il nostro giornalista!”. Da allora ricevo lettere, telefonate e-mail in cui mi suggeriscono di parlare di questo o di quello. Mi pongono problemi quotidiani e concreti, mi raccontano delle discriminazioni, dei razzismi subiti, degli ostacoli burocratici, delle leggi che li riguardano e che non capiscono, ecc. Tutte cose che mi confermano che mi sto muovendo nella giusta direzione. I migranti vedono in me e nel programma, un canale per farsi sentire e capire dalla popolazione e dalle autorità. Come avrei potuto scovare i temi per 460 servizi senza le loro sollecitazioni, suggerimenti? Il successo di questa trasmissione lo si deve proprio al rapporto di osmosi costante tra “Il Ponte” e i suoi ascoltatori, al trattare i problemi partendo da casi concreti. “Il Ponte” è dunque anche un programma di servizio. Certo, l’aspetto del servizio è fondamentale. C’è chi, ad esempio, ha bisogno di sapere cosa può o non può fare con un visto Schengen, oppure cosa comportano certe norme. Il mio metodo è semplice: ascolto il problema e dopo lo sottopongo direttamente agli enti, uffici o autorità competenti senza mediazioni di sorta. Vi sono trasmissioni consorelle nel resto della Confederazione? No, al momento si tratta di un progetto unico nel suo genere e non solo qui ma anche in tutta Europa. E mi riferisco ad un programma specifico per l’integrazione di tutte le comunità straniere di un territorio, che va in onda settimanalmente e con tanto di repliche. Esistono documentari, programmi con una frequenza sporadica ma simile al nostro no. Il riconoscimento ufficiale di novembre ha suscitato qualche curiosità oltre Gottardo? Certo, tanto da stimolare in altri cantoni la voglia di dare vita a trasmissioni simili. Mi hanno chiamato emittenti private (tivvù e radio) di Ginevra, Basilea, Zurigo… per chiedermi consiglio su come allestire un programma come “Il Ponte”. Alcuni giornalisti sono già venuti a trovarmi. Ed è questo ciò che conta: far sì che il processo d’integrazione diventi contagioso e si diffonda. Amnesty International Svizzera è scesa in campo contro le leggi sugli stranieri e sull’asilo dichiarandole lesive dei diritti umani. Cosa direbbe ad uno svizzero che ritiene che le restrizioni siano necessarie a contrastare gli abusi? Sa cosa direi a uno svizzero che ci manca di rispetto? Immagina che all’improvviso nella tua terra arrivi la guerra spazzando via in poche ore il tuo alto standard di vita, le tue due auto, il natel, l’appartamento , ma sei ancora fortunato: riesci a fuggire e pur senza niente ripari in Norvegia. Lì non sei più il medico, l’ingegnere, l’avvocato che sei stato, lì tu non sei nessuno, devi ricominciare da zero, dall’ultimo gradino: tu lì sei uno dei tanti stranieri indesiderati. A me la guerra ha preso tutto, ma a troppe persone ha rubato la vita. Vorrei che tu svizzero capissi che per tornare a fare il mio lavoro di giornalista, ho dovuto ricominciare tutto daccapo, così come ha dovuto fare e fa la maggioranza degli stranieri come me. “Io vi racconto la mia storia” Da 35 anni giornalista, Zlatko Hodzic ha lavorato per diverse testate a Zagabria, tra cui il noto quotidiano “Oslobodjenie” (Liberazione) e la tivvù di Zagabria nel settore informazione. La sua vita ha subito un violento cambiamento nel 1991 con l’inizio della guerra. Ricorda i primi bombardamenti nell’autunno di quell’anno: «C’era sangue dappertutto. Quel giorno non ho neanche finito di dire a mia moglie e mio figlio che dovevamo scappare all’estero che la prima granata è esplosa vicino alla mia casa.. Tra le esplosioni e i bombardamenti, ho messo al riparo la mia famiglia e in quel giorno ho fatto diversi viaggi in per portare in salvo numerosi bambini, con la mia Audi fino ad albergo sicuro in Dalmazia, a circa 60 chilometri da Zagabria. Poi sono partito con la mia famiglia e con l’angoscia per quelle vite in sospeso». La sofferenza di allora riaffiora e mentre racconta Hodzic non riesce a nascondere l’emozione. Su quei giorni sta scrivendo un libro. «Quando ti porti dentro un dolore così forte, o lo fai uscire raccontandolo o te lo tieni dentro rischiando di implodere». Questo vorrebbe far capire a chi discrimina gli stranieri: cosa significa ritrovarsi con la vita in macerie.

Pubblicato il

17.03.2006 02:30
Maria Pirisi
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