Un No per una nuova civiltà

"Aiutiamo le vittime delle guerre e i perseguitati di tutto il mondo": con questo slogan la comunità internazionale ha appena celebrato la Giornata mondiale del rifugiato.
In tutto il mondo, milioni di persone sono in fuga, la maggior parte di loro in Africa e Asia. Tutto questo è strettamente legato a una situazione economica disastrosa e a una precaria stabilità politica.
Il sottosviluppo, principale causa di questa sciagura, ha un'origine molto precisa e una logica facilmente individuabile: i paesi del Sud si trascinano nell'indigenza economica dai tempi della colonizzazione. Gli esempi del Ghana e del Congo mostrano che paesi ricchi di risorse finiscono per perdere l'autosufficienza alimentare e un minimo di coesione sociale tanto  da spingere i loro abitanti a scappare per non morire in massa.
Il Ghana è stato trasformato dal colonialismo in un'immensa piantagione di cacao. Le terre furono confiscate con il risultato che ci fu un cambiamento radicale delle abitudini e della cultura economica del paese. Ma il cacao non serve ai ghanesi: viene venduto sul mercato internazionale. I prezzi del cacao sono fissati dalle Borse di Londra, Parigi, New York, sulla base della domanda di mercato. Il Ghana è obbligato a vendere il cacao che non serve a nutrire i suoi figli, ragion  per cui l'economia ghanese rimane in balìa di forze che rispondono ad altri interessi con il risultato di un inevitabile impoverimento della popolazione.
Uno dei grandi momenti di vanificazione delle speranze di una effettiva emancipazione dell'Africa è rappresentato dalla tragedia congolese del 1960, anno in cui il Belgio concesse l'indipendenza a questa sua grande colonia. Il Congo trovò in Patrice Lumumba un leader molto fiero ed attento ai contenuti reali dell'indipendenza, impegnato nel recupero delle ricchezze nazionali che si trovavano in mani straniere. Furono allora promossi movimenti scissionisti, Lumumba venne assassinato e si instaurò la dittatura militare del generale Mobutu che consentì agli stranieri, in particolare ai belgi, di proseguire indisturbati lo sfruttamento delle risorse congolesi. Il Congo e tutta la regione dei Laghi subisce ancora oggi questa pesante e anomala situazione come testimoniano i gravi disordini politici e sociali che accompagnano la vita della sua gente. Il genocidio in Ruanda e Burundi ha costretto per anni la popolazione dei due paesi a riversarsi nelle regioni confinanti del Congo, in particolare a Goma, città che si trova vicino al lago Kivu nel nord-est della Repubblica democratica del Congo, in piena zona di guerra, che ha fatto dal 1998 più di quattro milioni di morti. A questa drammatica situazione si è aggiunta, ironia della sorte, l'eruzione del vulcano Nyiragongo che ha devastato la città. Come si fa a non scappare da questo inferno terrestre?
Nelle stesse  condizioni si trovano le popolazioni della Costa D'avorio, della Liberia, della Sierra Leone, del Togo, della Somalia, del Sudan e del Corno d'Africa, i kurdi, i tamil, i tibetani e i palestinesi.
Vivono tra guerre, carestie e dittature. Il mondo non conosce ancora la pace, ragione per cui tante persone hanno bisogno di protezione e di accoglienza, di una solidarietà immediata che possa tenere accesa la speranza di una vita dignitosa nel presente e nel futuro. Non resta altro a questo esercito di malcapitati che andarsene: viaggi forzati, estenuanti, durante i quali abbandonano ogni avere e soprattutto gli affetti più cari che in molti casi non ritroveranno mai più. Viaggiare in questo caso significa sconfinare con l'insolito, il tragico, oltre alla perdita di punti di riferimento, nella speranza di trovare un ambiente migliore, più sicuro, per continuare a vivere. L'esercito dei viaggiatori della speranza imbocca strani percorsi: rifugiati politici, migranti del lavoro, nomadi del tempo libero. Il motivo del viaggio non è mai lo stesso perché c'è chi lo sceglie e c'è chi lo subisce.
Il viaggiatore è un essere potenzialmente non sottomesso nell'immaginario collettivo della gente. Se proviene dal Sud del mondo deve anzitutto sottomettersi all'autorità del paese di accoglienza e l'accoglienza purtroppo non è sempre sinonimo di ospitalità. Tuttavia, il bisogno di salvezza, di un rifugio protettivo, sono anteposti alla paura dell'ignoto. Il luogo di approdo è quindi importante e indispensabile, indipendentemente da quello che è in grado di offrire. Non c'è in generale una consapevolezza della destinazione ma solo una speranza che le condizioni siano diverse dal luogo di partenza. Quando una massa di persone costretta a partire si rovescia su una strada, si mette in cammino verso un luogo più sicuro, non tiene conto della sua entità numerica, del fatto che il luogo di approdo possa scoppiare e che le risorse disponibili per la sopravvivenza possano essere esigue.
Si pensi che nel 1994, durante il genocidio in Ruanda, le popolazioni in fuga arrivavano al Centro dei rifugiati di Goma al ritmo di 10-12 mila persone al giorno.
I rifugiati rimangono spesso all'interno delle frontiere dei loro paesi quando non scappano in un altro paese vicino. Sono principalmente quelli che hanno familiari o conoscenze nei paesi occidentali che cercano di arrivarci per fuggire l'oppressione o la miseria dei campi di rifugiati. Serve, quindi, agire su due piani: da una parte assicurare la protezione e la presa a carico dei rifugiati o degli sfollati sul posto, dall'altra garantire anche alle persone che fuggono, per esempio in Svizzera, l'accesso ad una procedura equa e a un'accoglienza solidale. Con i successi della globalizzazione (il dominio del potere economico e finanziario transnazionale), le strade dei profughi e dell'immigrazione clandestina sono sempre più attraversate da mercanti di schiavi e criminali di ogni genere, legittimando così le politiche repressive dei governi del Nord. L'indifferenza che si manifesta nella diffidenza  diventa la regola al posto del benedetto binomio apertura e libertà di movimento.
Mentre le popolazioni del Sud del mondo vivono nella miseria, nella guerra e sotto regimi dittatoriali, tanti uomini e donne tentano di fuggire verso i paesi ricchi del pianeta, che non li accoglieranno di certo stendendo loro un tappeto rosso.
Come se non bastasse, in migliaia perdono la vita nel corso della loro fuga, muoiono di sete nei deserti o annegati nei mari di mezzo mondo. Le frontiere sono blindate e le condizioni di esistenza sono difficili, per non dire disumane, per chi riesce a sbarcare il lunario. Dappertutto in Occidente le politiche dell'asilo sono rigide e ingiuste, quando servirebbe solamente un minimo di solidarietà, sinonimo di accoglienza. Questa gente è spesso traumatizzata e quando riesce ad arrivare fin qui, trova delle leggi repressive, come quella svizzera sull'asilo che non aiuta a superare i traumi. Una legge che fa disperare i richiedenti d'asilo e soprattutto mette gli stessi in pericolo, una legge disumana che pone la lotta agli abusi al di sopra della protezione contro la persecuzione. Questa legge viola la convezione di Ginevra sullo statuto dei rifugiati.
Quasi ovunque in Occidente assistiamo alla chiusura delle frontiere, alla negazione del diritto di fuga, a dei muri formali o informali (dai reticolati al muro di cinta tra Messico e Usa, alle mura dei centri di detenzione e di accoglienza per richiedenti d'asilo, alle banlieues all'interno degli spazi metropolitani delle città europee) che vengono saldamente mantenuti per lo sfruttamento e l'invisibilità sociale degli immigrati.
Prossimamente, il 24 settembre 2006, ci sarà un referendum popolare per fare cadere la Legge sull'asilo, una legge che ha travolto e disumanizzato la grande tradizione di solidarietà e di accoglienza della società civile svizzera che data dai tempi della Seconda guerra mondiale. Partecipiamo in massa alla votazione con un no secco e senza equivoci per permettere alle persone perseguitate, vittime di tortura e di guerre di poter trovare conforto in questo nostro paese. Questa nuova legge rappresenta una catastrofe per le persone bisognose di sanare traumi e ferite subiti. Non siamo in grado di fermare le tragedie, in qualche modo annunciate, in questo nostro crudele mondo; grossi interessi (profitti, geopolitica ecc.) si oppongono e fanno precipitare inesorabilmente l'umanità nel Medioevo. Ma non tutto è perso, possiamo ancora fare qualche cosa per tenere alta la barra della speranza, per un mondo nuovo, per un uomo nuovo, per una civiltà nuova. Per cominciare ribadiamo un no categorico all'imbarbarimento dei rapporti in generale, aprendo le nostre case e i nostri cuori agli altri.


Mbacke Gadji, scrittore e giornalista senegalese di Niguith, ha lasciato la sua terra nel 1986. Dopo aver abitato in Francia, dove ha conseguito la laurea in Economia e Commercio, si è stabilito a Milano. Ha collaborato in veste di pubblicista con alcune testate nazionali, ha pubblicato con le Edizioni dell'Arco numerosi libri ed è stato consigliere circoscrizionale a Milano dal 1996 al 1998. Attualmente vive a Lugano. Questo testo è l'elaborazione dell'intervento tenuto a Festate di Chiasso il 17 giugno per la giornata del rifugiato.

Pubblicato il

23.06.2006 00:30
Mbacke Gadji