«Ucraine sfruttate: danno per l'intera categoria professionale»

Il Collettivo della badanti di Unia, nato dieci anni fa, sognando il Ccl, prende posizione sulla situazione delle colleghe scappate dalla guerra, intendendo fare rete attorno a loro

 

Le badanti in Ticino hanno fatto la storia della lotta contro lo sfruttamento e si sono contraddistinte per la tenacia nella conquista dei loro diritti.

 

A dieci anni dalla costituzione del collettivo, che riunisce le lavoratrici del settore, sono tornate per ricordare le tappe della loro sindacalizzazione e per segnalare i problemi: alcuni vecchi, altri nuovi. «Con l’arrivo delle ucraine, occorre riorganizzarsi, perché abbiamo colleghe doppiamente sfruttate: per lo stato d’indigenza e per la guerra. Accettano salari da fame, che fanno male a loro e danneggiano l’intera categoria».

E cosi si aggiunge un nuovo capitolo alla storia del collettivo delle badanti nato su spinta delle immigrate polacche.

 

«Con la pandemia la situazione per molte donne si è aggravata e lo scoppio della guerra ha ulteriormente fragilizzato le condizioni di molte persone. Ci troviamo in questo momento confrontate con centinaia di ucraine che, arrivate in Ticino, accettano di lavorare per 1.000, 1.500 franchi al mese. Dobbiamo raggiungerle, spiegare come difendersi, e quale è la strada della legalità, perché questo dumping salariale compromette anni di lotta».

 

A parlare è Carmen, 55enne rumena, che ha le idee in chiaro e lo spirito battagliero: «Non conoscono la lingua, il funzionamento delle leggi in Svizzera, né i loro diritti: è urgente fare rete con loro. In Ticino siamo più di 500 persone impiegate in questa attività, più altre in nero, che restano nascoste e non hanno nessun contatto con l’esterno per paura di essere scoperte».

 

Marzo 2023, siamo ancora qui a parlare di badanti. Era il febbraio del 2013: proprio dieci anni fa. Non sapevamo nulla della fatica di centinaia di donne straniere, in prevalenza dell’Est europeo, che accudivano anziani e malati a domicilio in Ticino.
Ci fu aperta una porta su un mondo al di fuori della nostra immaginazione e potemmo vedere dentro quelle mura domestiche segrete e private, il lavoro delle badanti: sfiancante, logorante, a tratti anche umiliante e con ritmi, in taluni, tanti casi, da burnout.


Molte di quelle donne che avevamo incontrato e ascoltato, lavoravano sempre, e per sempre intendiamo proprio ciò che indica il termine: giorno e notte, con un’ora di libera uscita al pomeriggio, per poi tornare a lavare, medicare, cucinare, stirare, fare le pulizie, tenere compagnia, consolare, vestire, mettere a letto, alzarsi in piena notte per soddisfare le richieste di chi non è più autonomo e vive una condizione di estrema fragilità.

 

Fu uno choc anche per il sindacato che, seppur abituato a essere confrontato con situazioni professionali estreme, si ritrovò a gestire un caso con caratteristiche particolari. Sì, perché quelle lavoratrici, non solo erano sottoposte a turni massacranti, ma non disponevano più della propria esistenza. Si fa presto a gridare “schiave!”, ma, insomma, diciamo che erano (sono?) costrette a vivere la... vita degli altri.


Depressione, crisi, avvilimento – la nostra inchiesta giornalistica era partita dai suicidi di due badanti polacche – ma anche tanta voglia di riscatto e di lotta. Quella lotta sindacale, ma anche di civiltà e culturale, che avviata da Unia Ticino e Moesano nel 2013 con una settantina di badanti polacche, che aveva reagito alla morte delle colleghe unendosi, oggi segna un cammino di dieci anni.

 

Un percorso che, all’interno del collettivo, ha portato a conquistare diritti, come l’ottenimento di un contratto normale di lavoro, a essere riconosciute all’interno della società per il contributo apportato, che va ben al di là dello stretto rapporto professionale, a vedersi creare, attraverso Ecap, un profilo formativo con il rilascio del diploma cantonale di badante (una primizia a livello nazionale).

 

Che cosa è stato fatto dunque in questi dieci anni, dopo l’iniziale clamore mediatico? A ricordare il lavoro svolto, gli entusiasmi, le delusioni (come quella di non aver conquistato un Contratto collettivo di lavoro), le vecchie e le nuove sfide (date per esempio dall’arrivo di ucraine, che accettano stipendi da fame), ci ha pensato il Collettivo Scintilla.

In occasione della giornata dedicata alle donne ha proposto sabato 4 marzo, al Biblio Cafè Tra l’altro a Lugano, l’evento “L’8 tutto l’anno”. Scintilla ha scelto di ascoltare e di far sentire la voce delle lavoratrici del collettivo badanti di Unia Ticino e Moesano, esempio di lotta femminista, ma anche della lotta di classe e di quella dei migranti.


Al tavolo cinque donne, due rumene, due brasiliane e una cinese, per portare la loro storia che, per riflesso, è quella dell’intera categoria professionale.
Prima osservazione: delle storiche polacche, che hanno dato vita al collettivo nel 2013, neanche l'ombra. I motivi possono essere dovuti al fatto che essere presenti fisicamente, per chi deve accudire una persona non autosufficiente 24 ore su 24, può risultare complicato: occorre trovare, come ha fatto Silvia, una collega disposta a sostituirla durante l’assenza. C’è però anche un’altra ragione: molte delle lavoratrici polacche sono rimaste insoddisfatte dal fatto che non sia stato ottenuto il Ccl e hanno deciso di non partecipare più alle iniziative del collettivo. La pandemia, poi, ha ridotto le possibilità d’incontro e ora il gruppo «deve tornare a ricompattarsi».


La seconda osservazione la fa la giovane militante di Scintilla, che introduce il tema di discussione: «Bisogna fare una riflessione sul termine badante: riduttivo visto il ruolo sociale che sono chiamate a ricoprire in situazioni molto delicate. Lavoratrici che restano la testimonianza di un modello di società patriarcale, la quale attribuisce alle donne il ruolo della cura: in questo caso l’“appalto” è affidato al settore femminile che migra».

 

Badante, un sostantivo che rimanda a significati ambivalenti: «Attorno a questa figura emergono centrali i rapporti umani, forti, intensi, che si instaurano con la persona assistita, e in nome di questa affettività si è disposte a sacrificarsi. Badante rimanda anche a sfruttamento, a vessazioni subite in uno stato di solitudine. Sono questi i due poli entro i quali si muovono le lavoratrici in un equilibrio spesso precario. Una situazione dura da vivere e, grazie all’incontro con il sindacato, hanno trovato modo di fare rete».


Una rete che ha portato a risultati concreti: «Un contratto normale di lavoro, ed è già un buon primo passo, e poi corsi di collaboratrice familiare per imparare a occuparti delle persone in modo corretto, una formazione specifica con tanto di diploma cantonale di badante e un appartamento d’emergenza. Un posto dove andare a dormire in seguito a un licenziamento o alla morte del proprio assistito: l’appartamento d’emergenza è stato una grande conquista, perché le badanti vivono nelle case degli altri e se all’improvviso manca l’alloggio, sono in mezzo alla strada».


Per Silvia, decana del collettivo, che pur avendo già superato l’età della pensione, lavora ancora, «si è potuto risolvere parte dei nostri problemi. Prima c’erano tante polacche, oggi a fare la badante in Ticino troviamo lavoratrici provenienti da Romania, Albania, Portogallo, Brasile e Cina. Volevamo costituire un’associazione, ma non ci siamo riuscite. Non abbiamo nemmeno ottenuto il Ccl: una cosa dolorosa, speriamo che le più giovani ne siano capaci».


Infine, Giangiorgio Gargantini, segretario cantonale di Unia Ticino e Moesano, che è intervenuto alla fine degli interventi: «Voi siete la prova che i lavoratori e le lavoratrici sono la forza del sindacato. Il luogo dove lavorate è una casa privata e noi non possiamo entrare. Tutto quel lavoro iniziale lo fate voi, come pure il contatto con diverse centinaia di affiliate, che arrivano a Unia attraverso il collettivo delle badanti. Grazie per fare sindacato con noi».

 

Pubblicato il

16.03.2023 17:07
Raffaella Brignoni e Federica Bassi
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