Ucciso dall’amianto per un paio di sci

Doveva essere un lavoretto estivo come tanti, un'occasione per guadagnare qualche franco durante le vacanze scolastiche e per togliersi uno sfizio: comprarsi un nuovo paio di sci, una spesa che i suoi genitori, di condizioni economiche modeste, non si potevano permettere. Ma per Gian Rechsteiner questa breve esperienza professionale vissuta da ragazzino si è rivelata, molti anni dopo, la sua condanna a morte. Morte per mesotelioma pleurico, il tipico cancro causato dalle fibre di amianto, che lui aveva respirato proprio in quella circostanza. Luogo del "delitto": lo stabilimento Eternit di Payerne, canton Vaud.

«In quella fabbrica aveva lavorato durante le estati del 1961 e del 1962. Non so però esattamente per quante settimane. Credo un paio di mesi. So invece per certo che aveva guadagnato complessivamente 825 franchi: risulta dal suo dossier dell'Avs», ricorda la figlia Estelle. «All'Eternit era incaricato di trasportare i sacchi di amianto e di svuotarli nell'apposito contenitore per la miscelatura con il cemento. Raccontava di un ambiente molto polveroso e di un impianto di ventilazione che non funzionava», aggiunge la nostra interlocutrice che molto di più non sa sull'attività di suo papà dentro  quella "fabbrica della morte".
Anche perché ci aveva vissuto per pochissimo tempo: «La sua vita professionale l'ha trascorsa lontano dall'amianto consacrandola interamente all'ingegneria civile, alla realizzazione di grandi opere in Svizzera e all'estero, come dighe e gallerie (compresa quella autostradale del San Gottardo)». Le settimane trascorse alla Eternit all'età di 17 - 18 anni erano diventate un lontano ricordo, un dettaglio della vita, e soprattutto non avevano mai spaventato Gian Rechsteiner: «In casa ogni tanto mamma sollevava la questione, ma senza approfondire l'aspetto delle possibili conseguenze sulla salute. La cosa rimaneva come una minaccia sospesa nell'aria. Lei aveva però la consapevolezza del pericolo, mentre mio papà lo negava. Raccontava di aver respirato talmente tanta polvere d'amianto ("la mangiavo, l'avevo in bocca", diceva), da essersi persuaso della sua innocuità o perlomeno di avere la fortuna dalla sua parte».
Ma nel 2003, a soli sessant'anni, iniziano i primi problemi respiratori e le analisi mediche rivelano ben presto una diagnosi senza appello: mesotelioma pleurico e il 5 per cento di probabilità di salvarsi. «Papà reagì con il suo solito ottimismo: si diceva certo di rientrare in questo cinque per cento. Ma dopo soli diciassette mesi morì», ricorda Estelle Rechsteiner. «Durante il periodo della malattia voleva proteggere me e le mie sorelle e dunque ci parlava poco del suo stato di salute, ma il suo cammino è stato molto doloroso, sia per la malattia che lo assaliva sia per gli effetti della chemioterapia. A un certo punto subì l'ablazione di un polmone, seguita da una breve fase di remissione del tumore, che in seguito si è però esteso all'altro polmone fino a non più consentirgli di respirare e a costringerlo attaccato a una bombola di ossigeno per ventiquattrore al giorno». «Mamma mia: tutto questo disastro per un paio di sci!».
Come le sue sofferenze, anche il dramma consumatosi alla Eternit di Payerne quando era un giovane studente che amava lo sport e lo sci in particolare, non era più oggetto di discussione in casa Rechsteiner: «Non si voleva rivangare il passato. Nonostante tutto si pensava al futuro», rammenta Estelle. L'unica piccola "fortuna" di Gian Rechsteiner è stata quella di essersi visto riconoscere senza troppe difficoltà l'origine professionale della sua malattia e le relative indennità previste da parte della Suva. Il che, come dimostra il caso di cui area si occupa in questa stessa pagina, non è sempre il caso. La biopsia del tessuto polmonare di Rechsteiner non lasciava dubbi: le sottilissime fibre di amianto (mille volte più sottili di un capello umano) erano ben visibili all'esame microscopico. «Da questo punto di vista ci è andata bene», riconosce Estelle Rechsteiner. «Mi chiedo come si sarebbe comportata la Suva se si fosse magari trattato di un operaio straniero...».
In ogni caso, non bastano certamente le prestazioni assicurative della Suva per fare giustizia e in famiglia è sempre rimasto vivo un sentimento di ribellione per quanto successo, soprattutto nella moglie Charlotte, anche lei nel frattempo deceduta. Ma anche nelle tre figlie, che continuano a interessarsi alla questione dell'amianto e alle vicende legate all'Eternit, «un marchio che rimane presente nella nostra vita», dice Estelle. È dunque «con grande soddisfazione» che ha appreso della condanna a sedici anni di carcere inflitta lo scorso febbraio dal Tribunale di Torino all'ex padrone della multinazionale svizzero-belga dell'amianto Stephan Schmidheiny. «Anche se Stephan non era ancora arrivato ai vertici dell'azienda quando mio papà lavorava alla Eternit di Payerne (era l'epoca del padre Max Schmidheiny), fa parte della stessa famiglia e ha avuto la stessa scarsa considerazione dei lavoratori. Questa sentenza è stata un bel segnale di fronte a un personaggio che si credeva invincibile e intoccabile, una speranza per tutte le vittime e una lezione di giustizia alla Svizzera, dove una legislazione troppo compiacente nei confronti degli industriali continua a impedire di processare i responsabili della strage», conclude Estelle Rechsteiner.

In Tribunale la conta delle fibre

Ventisette anni vissuti nella polvere di asbesto della Eternit, tre mesi dopo il pensionamento la diagnosi di cancro ai polmoni e il 3 dicembre 2003 la morte dopo otto anni di calvario. Siamo ormai a fine 2012 ma del caso di G.L., ex magazziniere presso lo stabilimento di Payerne (Vaud) della multinazionale dell'amianto, si sta ancora discutendo in un tribunale.

I suoi familiari rivendicano le prestazioni assicurative previste per le vittime del lavoro, mentre la Suva (l'istituto nazionale di assicurazione contro gli infortuni e le malattie professionali) vi si oppone fermamente, in virtù del fatto che l'uomo esposto alle polveri era anche un accanito fumatore di tabacco. Si tratta di una causa giudiziaria che suscita tante speranze ma che al tempo stesso mette tanta tristezza.
Quello che sta compiendo il Tribunale delle assicurazioni sociali del canton Vaud è un esercizio certamente importante dal punto di vista giudiziario, ma fondamentalmente superfluo, fuori dal tempo, quasi ridicolo alla luce delle conoscenze scientifiche sulla dannosità dell'amianto e della casistica delle vittime. Il giudice ha infatti il duplice compito di stabilire per quanto tempo e con quale frequenza l'operaio G.L. durante la sua attività professionale alla Eternit di Payerne (durata dal 1968 al 1995) ha lavorato negli spazi più polverosi della fabbrica e dunque di appurare se esiste un nesso causale con la sua malattia. Come se questi non fossero fatti ovvi quando una persona lavora per anni e anni in un ambiente dove, hanno riferito i testimoni chiamati a deporre nel processo, prima che venisse installato un impianto di aspirazione centrale le superfici ricoperte di polvere d'amianto venivano ripulite con l'aria compressa, dove le placche in amianto venivano distrutte a cielo aperto con l'ausilio di un trax e dove gli operai dovevano riparare a mani nude con del nastro adesivo i sacchi d'amianto rotti. Per non parlare dell'assenza di qualsiasi misura di protezione personale: «Le mascherine mi chiede? -ha tuonato nell'udienza di venerdì scorso un operaio della fabbrica che aveva lavorato a diretto contatto con la vittima- Certo, c'erano ma non le indossavamo mai, perché non sapevamo della pericolosità dell'amianto: Nessuno ci diceva niente». E ancora: «Ho visto anche Stephan e Thomas Schmidheiny (succedutisi alla guida di Eternit, ndr) attraversare gli stabilimenti. Non so se loro sapessero...».
Dopo aver sentito numerose testimonianze che in modo corale descrivono un ambiente di lavoro altamente polveroso dal quale verosimilmente nessun dipendete dell'Eternit poteva sfuggire, il giudice ha formalmente chiesto al legale della Suva di far pervenire all'istituto assicurativo la richiesta di rivalutare, «alla luce delle nuove informazioni emerse», le sue stime circa il livello di esposizione alle fibre cui sarebbe stato sottoposto G.L. e dunque le sue decisioni in materia di prestazioni assicurative. Il legale ha lasciato intendere che difficilmente la Suva accoglierà la richiesta poiché le novità emerse non sarebbero sufficientemente «concrete». Il Tribunale vodese è nel contempo intenzionato a far eseguire una perizia ad un esperto indipendente svizzero (ancora da designare), il quale dovrà rispondere a una serie di quesiti che saranno contenuti in un'ordinanza dello stesso Tribunale (sulla quale le parti avranno la possibilità di esprimersi entro il 17 dicembre) e gettare le basi per una decisione definitiva sul caso di G.L.
Una decisione probabilmente ancora lontana ma che potrebbe avere importanti ripercussioni su altri casi simili, oltre che riportare un po' di buon senso nel modo in cui in questo paese si fanno i conti (o meglio si cerca di non farli) con la tragedia dell'amianto.

Pubblicato il

23.11.2012 03:30
Claudio Carrer