Concorrenza sleale nei confronti dei tassisti, violazioni delle norme sul trasporto delle persone e della legislazione svizzera sul lavoro, in particolare per quanto riguarda il rispetto dei tempi di riposo degli autisti, ma anche una minaccia per la sicurezza dei passeggeri. Sono le principali ragioni che hanno spinto i tassisti di Basilea e di Zurigo, con il sostegno del sindacato Unia, a inscenare settimana scorsa una manifestazione di protesta davanti alla stazione principale della città sul Reno contro Uber, la multinazionale californiana che fornisce un servizio di trasporto automobilistico privato e a buon mercato (ma non sempre) attraverso un’applicazione per telefoni mobili che mette in contatto diretto gli autisti con i potenziali utenti, così come a chiederne la messa al bando attraverso una petizione indirizzata al governo e al parlamento cantonali. Uber si presenta come un servizio «che sta facendo evolvere il modo in cui si muove il mondo». «Collegando gli autisti con i clienti grazie alle nostre applicazioni rendiamo le città più accessibili creando nuove opportunità per i clienti e occasioni di lavoro per gli autisti», si legge nel sito di questa multinazionale atipica fondata in California nel 2009 e oggi presente in una sessantina di paesi e in 300 città di tutto il mondo, valutata 51 miliardi di dollari e prossima all’approdo in Borsa. Come nel resto del mondo, anche in Svizzera (dove è presente a Ginevra, Losanna, Zurigo e Basilea) Uber fa infuriare i conducenti di taxi per la sua politica dei prezzi stracciati e per la sua spregiudicatezza. I tassisti zurighesi, quelli maggiormente confrontati con la concorrenza di Uber, denunciano per esempio un calo del fatturato pari al 40 per cento e il conseguente aumento della pressione sui loro salari già modesti. Certo, agli occhi dell’utente che per spostarsi da A a B arriva a pagare (soprattutto sulle lunghe distanze) fino a meno della metà di un taxi normale, può apparire come una grande opportunità. Insomma un servizio che nel moderno linguaggio parlato potremmo definire “figo”, termine che nello slang americano si traduce con espressioni già penetrate nella nostra lingua quali "cool” e "super”, ma anche proprio con la parola “Uber”, a testimonianza del fiuto per il marketing dei suoi fondatori. In realtà l’attività di Uber, peraltro già vietata in diversi paesi e città nonché oggetto di una miriade di cause giudiziarie e di iniziative legislative un po’ ovunque, pone problemi seri e di varia natura. Prima di sviscerarne alcuni val però la pena capire meglio il funzionamento e i diversi tipi di servizi offerti da Uber. Il tutto è basato su un’applicazione per smartphone (ovviamente gratuita), che, grazie alla geolocalizzazione, consente di visualizzare su una mappa le auto disponibili nelle vicinanze, con tanto di indicazione del tempo di attesa e con la possibilità di calcolare la tariffa indicativa per il percorso desiderato. Per prenotare bastano due click sul telefonino, attraverso il quale il cliente può tenere traccia in tempo reale della posizione della vettura richiesta. Il sistema per stabilire il costo della corsa, calcolato in base alla distanza percorsa (se la velocità supera i 17 km/h) e/o al tempo trascorso (se la velocità è inferiore a quella indicata), è simile a quello dei taxi, ma il pagamento della stessa non avviene tra il conducente e il cliente ma direttamente tra quest’ultimo e Uber attraverso una carta di credito. In questa operazione Uber intasca una commissione variabile tra il 20 e il 30 per cento, mentre il resto va all’autista, che è il proprietario dell’auto, quello che paga la benzina, la manutenzione, l’assicurazione, la tassa d’immatricolazione eccetera. Un’altra particolarità di Uber è la possibilità per il cliente di scegliere tra diversi tipi di vettura (per esempio Berlina, Suv o auto elegante), che hanno evidentemente costi diversi. I “prodotti” offerti in Svizzera sono tre: Uber black (auto elegante tipo limousine, tariffa base 6 franchi, 60 centesimi al minuto, 3,60 al chilometro e tariffa minima 15 franchi), Uber X (berlina, tariffa base 4 franchi, 40 centesimi al minuto, 2,20 al chilometro e tariffa minima 8 franchi) e Uber POP (tariffa base 3 franchi, 30 centesimi al minuto, 1,35 al chilometro e tariffa minima 6 franchi), cioè la versione “low cost”, la declinazione di massa dell’idea Uber, che è anche quella che più fa arrabbiare i tassisti, che suscita le maggiori polemiche e che più frequentemente è oggetto di divieti (come a Ginevra e Losanna per esempio). Lanciata nel 2014, Uber POP è una trovata che consente praticamente a tutti di diventare un autista Uber: basta possedere un’auto con almeno 4 porte, che non abbia danni visibili e che non sia più vecchia di 9 anni. “Raccontaci qualcosa di te, scarica l’applicazione e mettiti al volante” è lo slogan con cui l’azienda recluta nuovi autisti attraverso il suo sito internet. Uber POP viene presentato come un elemento della cosiddetta “Sharing economy” (“economia della condivisione”), un’espressione che indica lo scambio, il prestito, l’utilizzo comune e l’affitto di oggetti, spazi e conoscenze e che trasmette l’idea di un’economia più sostenibile, basata su un sistema di consumo più intelligente e razionale, che riduca lo spreco di risorse, l’inquinamento e corregga molte distorsioni del sistema capitalista. Peccato che nella realtà dei fatti, Uber e tante altre aziende simili affermatesi negli ultimi anni grazie allo sviluppo delle moderne piattaforme tecnologiche, siano più che altro interessate a trasformare la condivisione in una macchina per fare soldi. Uber POP è in questo senso un esempio paradigmatico: venduto come un’opportunità per condividere un viaggio con qualcun altro e dividerne i costi, è in realtà un servizio a pagamento in cui il passeggero paga una tariffa calcolata con un sistema simile a quello applicato dai taxi. Correndo oltretutto una serie di rischi. Basti pensare che gli “autisti per hobby” di Uber, «a differenza dei tassisti regolari, non vengono sottoposti né a visite mediche né a verifiche di buona condotta, né al controllo dei tempi di riposo», commenta Roman Künzler, responsabile del settore terziario di Unia per la regione della Svizzera Nord-occidentale e studioso del fenomeno Uber, il quale tiene tuttavia a sottolineare come l’intervento del sindacato non sia diretto contro gli autisti, che sono delle «vittime di Uber», ma contro la multinazionale e la sua «filosofia aziendale basata sul mancato rispetto delle regole e delle leggi». «Gli autisti sono dei falsi indipendenti e Uber è un datore di lavoro a tutti gli effetti, che dovrebbe attenersi alla legislazione sul lavoro, pagare i contributi sociali e le imposte, ma non fa nulla di tutto questo». Resta il fatto che l’intervento per cercare di bandire Uber alla fine colpisce anche questi autisti per hobby, che con questa attività si assicurano il minimo vitale o che arrotondano un salario da fame, come abbiamo avuto modo di constatare di persona utilizzando Uber POP a Zurigo nell’ambito della preparazione di questo servizio giornalistico. Una ventina di corse sono bastate per farci un quadro della situazione: l’autista tipo è un precario che si mette a disposizione di Uber per giornate intere, a volte è un tassista professionista che di giorno lavora per una società tradizionale in un Cantone vicino e di sera e di notte per Uber nella città di Zurigo, di regola non conosce le strade e si orienta tendendo nella mano il telefonino sintonizzato sul navigatore. E oltretutto subisce spesso le angherie, gli insulti e a volte persino le botte dei tassisti regolari, infuriati per la concorrenza sleale subita. Per evitare di essere riconosciuti invitano dunque i clienti a prendere posto nei sedili anteriori e non in quelli posteriori come è spesso abitudine sui taxi. In che misura Unia si è posta il problema della precarietà che muove le persone a diventare autisti Uber? A differenza che in altre città dove si è arrivati alla proibizione di Uber POP ma non degli altri servizi che verrebbero assicurati da autisti professionali, abbiamo deciso di intervenire contro l’azienda proprio per non dare l’impressione di prendercela con gli autisti. Va però anche detto che non è compito del sindacato garantire posti di lavoro precari e rischiosi come questo. Personalmente non condivido l’opinione di taluni politici, che ritengono sia giusto dare alle persone la possibilità di conseguire piccoli guadagni pur di risparmiarli dall’assistenza. Avete potuto verificare quanto guadagnano gli autisti di Uber? È un’operazione molto difficile, perché la retribuzione dipende dalle tariffe applicate che sono estremamente variabili, visto che aumentano proporzionalmente alla domanda. Per quel che sappiamo, anche in base a quanto successo negli Stati Uniti, Uber entra infatti in un nuovo mercato praticando dumping tariffario e buone condizioni per gli autisti ma, una volta affermatisi e raggiunta una posizione di monopolio, aumenta le tariffe e la propria commissione (anche fino al 30 per cento) riducendo così il compenso dell’autista. La questione del compenso viene regolata tramite un contratto? A oggi non ho ancora visto un solo contratto. Stiamo ancora approfondendo e abbiamo già in agenda degli incontri riservati con alcuni autisti. Per ora si sa solo che firmano una dichiarazione in cui si dicono consapevoli delle leggi in vigore in Svizzera e che possono lavorare come autisti Uber Pop al massimo 2 volte ogni 16 giorni perché il trasporto a pagamento di una persona non sia considerato professionale. In questo modo Uber scarica tutta la responsabilità sugli autisti. Quanto è importante per il sindacato occuparsi di queste forme atipiche di datori di lavoro? È fondamentale direi, perché aziende come Uber proliferano anche in altri campi (pulizie, ristorazione, immobiliare eccetera) e ciò sta cambiando, e molto in fretta, il concetto stesso di lavoro dal punto di vista culturale. Così come il valore di “bene comune”, che questi grandi speculatori hanno trovato il modo di espropriare, di privatizzare, paradossalmente attraverso la creazione di relazioni sociali. |