L'ultima COP28 ha sancito la raccomandazione di abbandonare i combustibili fossili entro il 2050! Suona bene, ma solo a prima vista, in realtà la decisione, definita da taluni media storica, “infagotta” la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici per frenare le emissioni di gas ad effetto serra di Parigi stipulato da 191 stati. A 9 anni di distanza il “laisser faire-laisser aller” (dei paesi avanzati compresa la Svizzera sede di multinazionali del settore) ha addirittura favorito l’aumento degli investimenti nel fossile (dal 2016 oltre 2.200 miliardi di dollari). Ma soprattutto ciò che sfugge ai più è che l’obiettivo di mantenere il surriscaldamento terrestre al di sotto dei 2 gradi entro fine secolo è stato oramai accantonato. Candidamente è ammesso che si arriverà piuttosto attorno ai 4 gradi! Agli stati il compito di preparasi per affrontare la situazione, mediante soluzioni tecnologiche di contenimento e/o di eliminazione del CO2 quali: aumentare la vegetazione posando alberi, “catturare” e imprigionare il CO2 nel sottosuolo. Soluzioni interessanti, ma insufficienti e inadeguate a fronte dell’enorme quantità di CO2 presente nell’atmosfera che continua ad aumentare! Insomma, una versione aggiornata del Gattopardismo “tutto deve cambiare perché tutto resti come prima”; dove il tutto cambia è la tecnologia, mentre il “resti come prima” è il capitalismo. Capitalismo, come ricorda John Bellamy Foster, professore all’università dell’Oregon e direttore della rivista Monthly Review, che “mette l’accumulazione del capitale prima delle persone e del pianeta”. Capitalismo che si affida alla narrazione che poggia sulla crescita del benessere materiale “mediante asservimento di scienza e tecnologia ad un’economia capitalista basata sul mercato” come riassume l’economista e sociologo Jeremy Rifkin. Un paradigma che ha consentito di passare dalla società medievale a quella moderna promettendo di migliorare la condizione umana. Che oggi mostra segnali opposti: perdita di benessere, crescita della povertà, disagi climatici che rendono inabitabili zone crescenti della Terra. Storicamente tutto sembrava procedesse senza intoppi, malgrado gli avvertimenti dal mondo scientifico a quello dell’economia già da fine ’800 riguardo la necessità di considerare le leggi della termodinamica, che spiegavano implicazioni e conseguenza dell’energia e suo uso; ancora spallucce all’allerta lanciata nel 1944 dal fisico austriaco Erwin Schrödinger, premio Nobel, “ogni essere vivente quando mangia ed espelle scarti riduce continuamente l’energia disponibile sulla Terra appesantendo il conto entropico”. Nemmeno oggidì, di fronte all’accelerazione della perdita di biodiversità e la crescita di fenomeni meteorologici per violenza e intensità sconosciuta, chiaro segnale di un mutamento climatico in corso, v’è un cambio di paradigma. La maggioranza del mondo dell’economia continua a perorare il modello “meccanico” convinta che per aggiustare le cose sia sufficiente assegnare un valore monetario a quelle che vengono chiamate “esternalità” quali: inquinamento, consumo di materie prime. Dimentichi che materie energetiche, natura (ovvero insieme degli esseri biologici) non sono riproducibili, possono solo evolvere; la perdita di una parte, basta per scombussolare il funzionamento dell’intero sistema, fino a farlo crollare, estinguere. Se ciò capitasse per la Terra sarebbe la sesta estinzione, per noi umani e l’insieme della natura di cui facciamo parte: semplicemente la fine!
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