Le elezioni presidenziali e parlamentari che si sono chiuse con il ballottaggio del 28 maggio in Turchia hanno segnato la vittoria del presidente in carica Recep Tayyip Erdogan che si è affermato sul suo sfidante, Kemal Kilicdaroglu, con il 52,1% dei voti. La prima riflessione che si può fare su questo risultato, tenendo in mente le diffuse accuse di brogli, l’accesso limitato per le opposizioni ai mezzi di informazione e la campagna di demonizzazione della minoranza curda, è che non si è votato in un contesto democratico ma di non-democrazia, nonostante l’ampia partecipazione elettorale dei turchi che vorrebbero voltare pagina con l’autoritarismo. «Lo stato profondo e la politica dall’alto hanno permesso al blocco al potere, organizzato come una mafia, di mettere in atto massicce tattiche illegali per influire sul voto», ha spiegato ad area il docente turco di Sociologia politica, Gokhan Demir. Sulla stessa linea sono stati i commenti dal carcere del leader di opposizione della sinistra filo-curda (Hdp), Selahattin Demirtas, che ha parlato di un’«operazione governativa» piuttosto che di un processo elettorale, rivendicando una disparità significativa di condizioni tra la coalizione di Erdogan e le opposizioni durante il voto. Questi commenti evidenziano un secondo punto essenziale per analizzare questo voto: non c’è spazio per i curdi, se non estremamente marginale, nella politica turca. Hdp deve sempre rimanere una piccola minoranza, i suoi politici non possono esprimersi liberamente se non a prezzo dell’arresto e dell’estromissione dal potere. E quindi la sinistra filo-curda oltre ai pochi seggi che si è assicurata in parlamento non può avere un peso politico nel Paese. Questo implica che qualsiasi altra forza politica si allei con i curdi rischia di essere marginalizzata e ghettizzata dalla coalizione anti-curda. Come è avvenuto per esempio con la diffusione in campagna elettorale di un video falso che mostrava Kilicdaroglu accostato al partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk) di Abdullah Öcalan con il solo scopo di discreditarlo. Non importa se questo abbia un’implicazione rilevante anche per lo stesso Erdogan che, dopo una vittoria alle parlamentari grazie alla destra nazionalista dell’Mhp, ha vinto le presidenziali per l’endorsement ottenuto dal terzo candidato, il nazionalista Sinan Ogan. In altre parole l’islamismo politico e il populismo di Erdogan saranno ostaggio nei prossimi cinque anni dei nazionalisti, xenofobi di Mhp. Questo vuol dire che non si annunciano tempi duri solo per i curdi ma anche per le comunità Lgbtq, il cui spazio conquistato in anni di lotta sarà a rischio, ma anche le comunità migranti siriane, al centro dei discorsi di odio in campagna elettorale, e che ancora una volta per la maggior parte sono costituite da curdi, doppiamente discriminati. Il clima di intimidazione in cui si è votato al ballottaggio è culminato in 177 arresti tra gli attivisti curdi, sostenitori di Hdp, attacchi agli osservatori nei seggi nelle città curde di Cizre, Hakkari, Urfa, Mardin. In particolare ad Hakkari si sono registrati arresti di massa subito dopo la diffusione dei risultati mentre non sono mancate le dimostrazioni di forza. I mercenari turchi nel cantone curdo di Afrin hanno sparato in segno di festeggiamento per la conferma di Erdogan, causando la morte di un bambino. Ancora una volta il sogno del Rojava è stato duramente messo alla prova da questo voto perché l’esercito turco continuerà a colpire i curdi in Siria e in Iraq, senza nessun ostacolo internazionale, mettendo a rischio l’esistenza del progetto di autonomia democratica. Ovviamente questo permetterà a Erdogan di continuare a tenere l’Unione europea ostaggio della sua politica migratoria di ricatto, di continuare a ricoprire un ruolo centrale in Libia e in Siria, mantenendo la sua posizione di mediazione e sostegno per Vladimir Putin nel conflitto in Ucraina.
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