L’economia dominante, gli ambienti padronali, i partiti borghesi, gli stessi governanti cantano all’unisono lo stesso ritornello: non si può ridistribuire (avere una politica sociale) se prima non si accumula (se non si ha un bel malloppo di ricchezza). Sembra un principio logico. Il ritornello lo si canta sia per i bilanci dello Stato (accompagnato dalla immancabile critica: abbiamo vissuto al di sopra dei nostri mezzi), sia quando si formulano richieste di aumenti o di minimi salariali (accompagnato da un’altra immancabile obiezione: creeremo disoccupazione).


Quel principio sa però di trucco o di ricatto. Dapprima, perché prevale sempre l’argomentazione, in nome della competitività o della produttività, che non si è ancora creato abbastanza per poter distribuire. Non è mai il momento buono. Anzi, è proprio perché non si è voluto tener conto di quel principio che poi si è costretti a distribuire meno (i sussidi alle casse malati) o a ricorrere a manodopera con minori costi (delocalizzando o ricorrendo a manodopera staccata). In secondo luogo,  perché ruotando attorno a quel principio si riesce a distogliere l’attenzione dalla ricchezza accumulata.

 

Insomma, da quella realtà che, se fosse tenuta in considerazione, potrebbe portare anche la paciosa  Svizzera a conflittualità sociali. Quale realtà? Che il 3 per cento della popolazione residente possiede un patrimonio paragonabile a quello che detiene il rimanente 97 per cento. Un 3 per cento costituito oltretutto da chi può sfuggire facilmente al fisco perché giostra i capitali dove sono meglio “ottimizzati” e non sa che farsene delle amnistie fiscali. Così la decantata liberalizzazione dei capitali che doveva giovare a tutti ha portato, nella realtà, a una «monopolizzazione di ricchezze» (come dice e dimostra nella forse unica ricerca sulla ricchezza in Svizzera, Ueli Mäder, dell’Università di Basilea, in Wie Reiche denken und lenken, Rotpunktverlag 2010).


Ci sarebbe un altro modo di vedere le cose. Mai  affrontato. Parte proprio dall’antifona padronale che assimila sempre competitività e riduzione del costo del lavoro, ritenuto quest’ultimo sempre eccessivo e causa di ogni male. Perché non si parla mai, invece, di sovraccosto del capitale o di spreco del capitale? Il sovraccosto finanziario o di rendimento del capitale è costituito dalla somma enorme versata dalla finanza a dividendi e profitti distribuiti e non reinvestiti o anche agli affitti eccessivi chiesti dalla speculazione fondiaria e immobiliare. Le società e le imprese pagano somme sempre più esorbitanti ad azionisti, banche, redditieri d’ogni sorta, mercati finanziari. Somme destituite di ogni giustificazione economica reale.


Se, stando alle sole cifre della Banca Mondiale, il valore della produzione mondiale (dell’economia reale) è pari a 63 mila miliardi di dollari, mentre il valore delle azioni è tre volte tanto e quello di altri titoli finanziari (i famosi derivati o i titoli speculativi) dieci volte tanto, con una esplosione del cento per cento in pochi anni, bisognerà pur avvertirne l’assurdità universale e concludere che questo mondo è matto, non solo economicamente. E che, soprattutto, l’unico a trovarsi privato di valore è proprio il concreto lavoro. Forse ha ragione quel premio Nobel per l’economia che sostiene come il capitalismo senza bolle finanziarie o immobiliari simili a quelle appena capitate, sfociate nella crisi che hanno pagato i più deboli, non potrebbe sopravvivere. Paradossale? No, è così. Alla prossima, quindi.

Pubblicato il 

23.01.14

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