Tri-Star se ne va in Messico

Un’ottantina di lavoratori perderà il lavoro e un altro pezzo di competenze industriali ticinese lascia il territorio. Le reazioni di operai, Aiti e Cantone

Ottanta posti di lavoro cancellati per cieca cupidigia manageriale. Il problema della fabbrica non sono gli ordinativi. Sono pieni fino a settembre. La delocalizzazione decisa dai manager è puramente economica. Risparmiare sui salari elvetici sostituendoli con manodopera messicana malpagata. Un calcolo teorico che non tiene conto della pratica, spiegano all’unisono operai, dirigenza e sindacato Unia. Per produrre quei pezzi di microelettronica ad altissima precisione, non basta trasferire i macchinari. Bisogna sapere farli andare. A perderci anche il tessuto industriale ticinese, sempre più impoverito a livello qualitativo.

Venerdì scorso, l’arrivo di una mail ha cancellato le ultime speranze. Tre righe per dire: «La chiusura è irrevocabile». Al momento di andare in stampa, martedì, il destino sembra ormai segnato per l’impresa che dal 1984 produce nel ramo della microelettronica dei pezzi di precisione millesimale destinati soprattutto all’industria aeronautica e al settore medicale. Per decisione manageriale del gruppo americano Carlisle, proprietario dal 2011 della fabbrica ticinese, la produzione sarà spostata a Nogales, città messicana dello stato di Sonora a ridosso del confine con gli Stati Uniti.


L’azienda ticinese non sarà chiusa perché in perdita, ma perché il gruppo possa aumentare i profitti. La Tri-Star ha sì sofferto durante il biennio pandemico per la paralisi del settore aeronautico, ma la sua ripresa è stata rapida. Gli ordinativi sono pieni fino a settembre e per farvi fronte, oltre a nuove assunzioni anche recenti, è stato introdotto il sabato lavorativo.

 

La chiusura della fabbrica ticinese è frutto di un’idea dei manager americani tanto semplice quanto banale: riduciamo i costi risparmiando sui salari svizzeri con quelli messicani, trasferiamo il centinaio di macchinari da Bioggio a Nogales nell’enorme capannone industriale da poco acquisito e continuiamo la produzione dal Messico coi nuovi operai appositamente formati. Così aumenteremo i profitti e gli azionisti saranno contenti. Una filosofia sintetizzata in Visione 2025 da Christian Koch, Ceo di Carlisle, il cui obiettivo è «superare i 15 dollari di dividendo per azione entro il 2025». A pagare il conto degli azionisti, saranno gli operai di Bioggio con la perdita del lavoro. Ma nella pratica, i calcoli non sono sempre così lineari come nella teoria.


«Se la decisione di chiudere potrebbe reggere a livello teorico finanziario, nella pratica presenta molte incognite» spiega ad area Paolo Conti, direttore dello stabilimento ticinese. «I nostri macchinari sono datati e per farli funzionare al meglio, ci vuole molta esperienza. Attenzione, vecchi non vuol dire che non siano buoni, anzi, sono dei gioielli. Semplicemente non essendo digitali, richiedono molta manualità dell’operatore. È un lavoro che si potrebbe definire artigianale. Per capirsi, non basta impostare il computer e aspettare l’uscita dei pezzi. Formare manodopera in grado di farli funzionare esige molto tempo. Se non adeguatamente preparata, il rischio di un fallimento economico e produttivo è molto alto. Ed è quanto abbiamo cercato di far presente ai vertici del gruppo. Purtroppo siamo rimasti inascoltati» racconta il direttore.


Nei giorni passati, la commissione del personale, sindacalisti di Unia e la dirigenza aziendale hanno lavorato alacremente per indicare delle alternative alla chiusura ai manager d’Oltreoceano. Per far comprendere i rischi legati alla delocalizzazione, hanno segnalato un precedente molto simile al loro caso. Nel 2020, un gruppo svizzero-americano chiuse la TE Connectivity di Bioggio dislocando la produzione in Portogallo, lasciando a casa un centinaio di lavoratori. La fabbrica era attiva nella microelettronica di precisione come la Tri-Star. A due anni di distanza, lo stabilimento portoghese sta vivendo grandi difficoltà, assicurano ex operai ben informati dai loro colleghi ancora nel gruppo.


Problemi non solo dovuti alla scarsa competenza della manodopera in quel campo, ma pure dall’assenza di un tessuto industriale locale di supporto. «Chi produce i pezzi di ricambio delle nostre macchine o svolge le manutenzioni – spiega il direttore della Tri-Star – sono tutti localizzati in Svizzera o Nord Italia. Quando la produzione sarà in Messico, non avendo ditte sul territorio, dovranno far capo ai nostri interlocutori. Con tutte le difficoltà del caso, a partire dalla lingua. Sembra banale, ma la prossimità consente di risolvere velocemente i problemi di produzione, risparmiando tempo e denaro».


Amarezza e delusione traspaiono dalle parole di Orlando Patricio Sanhueza, presidente della Commissione del personale. «Liquidare con tre righe la chiusura della fabbrica, è stato irrispettoso nei confronti di tutta la manodopera. Lavoratori che durante la pandemia hanno fatto sacrifici e successivamente hanno dato il massimo per rilanciare l’impresa, tanto che ora va a gonfie vele. Ora invece arriva il benservito per un’operazione di cui dubitiamo seriamente possa funzionare, senza nemmeno considerare le nostre proposte alternative. Fa male, per non dire altro».


Oltre a far presente i rischi pratici legati alla delocalizzazione, la Commissione del personale, sindacalisti di Unia e i vertici aziendali, hanno indicato proposte di risparmio fino a un milione di franchi nella sede ticinese. Senza successo. «Più di tanto non potevamo offrire. Di certo non possiamo mettere sul piatto i nostri salari per competere con quelli messicani. Non possiamo e non vogliamo» conclude l’operaio.
I lavoratori ora esigono chiarezza sui tempi dei licenziamenti dei singoli dipendenti e il relativo piano sociale. Qualche risposta nel corso della settimana è arrivata. «Ci hanno proposto un piano sociale di poco superiore a quanto previsto dalla legge. Noi abbiamo fatto una controproposta che tenga conto, oltre all'anzianità di servizio, del danno economico causato dalla loro partenza alle famiglie o a chi ha figli. Aspettiamo la loro risposta» spiega Sanhueza. L'azienda dovrebbe avere tutto l'interesse a trovare una soluzione soddisfacente per i dipendenti, aggiungiamo noi. Non fosse altro che gli unici lavoratori in grado di rispondere agli ordinativi già acquisiti almeno fino a settembre, saranno gli operai dello stabilimento ticinese.

 

La chiusura della Tri-Star non rappresenta un colpo per le sole maestranze, ma per l’intero tessuto industriale ticinese. Con la partenza di un secondo centro di produzione di qualità mondialmente riconosciuta, si perde un altro pezzo del prezioso saper fare operaio. Nel caso di Te Connectivity e Tri-Star la produzione di componenti ad alta precisione deriva da decenni di storia industriale svizzera. Dal Giura per la precisione, dove si sviluppò l’industria orologiera oggi ampiamente apprezzata nel mondo.


«Spiace veramente perdere un’azienda avanzata con delle competenze tecniche e personali elevate» risponde ad area Stefano Modenini, direttore dell’Associazione delle industrie ticinesi (Aiti). «Mi auguro che il know how dei dirigenti e dei collaboratori non vada ora perso ritrovando rapidamente un nuovo impiego. Per Aiti si tratta di segnali d’allarme che le parti sociali ma soprattutto le istituzioni e la politica devono prendere sul serio. La popolazione invecchia, la competitività aumenta. Arrivano nuove tecnologie e il mondo del lavoro cambia, la formazione deve essere aggiornata. È necessario stabilire un patto di paese per creare le piste dello sviluppo economico di qualità nei prossimi anni, secondo una scala di priorità. E bisogna farlo adesso, non fra dieci anni, quando sarà troppo tardi».


Stefano Rizzi, direttore della Divisione dell’economia, abbiamo chiesto un commento sul progressivo impoverimento del tessuto industriale di qualità con le due partenze di Te Connectivity e Tri-Star nel giro di un paio d'anni. «Non commentiamo decisioni puntuali di singole aziende. Crediamo sia opportuno sottolineare che gli indicatori sull’andamento dell’economia restano positivi ed evidenziano ad esempio un tasso di disoccupazione ai minimi storici. Evoluzione favorita anche dalla positiva dinamica sul mercato del lavoro con la crescita del numero d’impieghi».

Pubblicato il

08.03.2023 11:39
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