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Tregua a Gaza. Ma è solo una pausa del conflitto israelo-palestinese

Il cessate il fuoco firmato a Doha da Israele e Hamas è una buona notizia ma non fermerà la guerra che dura da quasi 80 anni

Festeggiamenti nel centro di Gaza a Deir al-Balah e nel campo di Khan Yunis hanno accolto la notizia dell’accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas. “Abbiamo atteso tanto”, ha commentato Sanabel, una giovane palestinese che vive nel Nord di Gaza. “Finalmente potrò tornare a dormire nel mio letto”, ha aggiunto. “Voglio che i miei figli non abbiano più paura da questo momento in avanti”, ha commentato Nawara al-Najjar i cui familiari sono stati uccisi nei raid israeliani.

 

I termini della tregua

Dopo 466 giorni di conflitto, Israele e Hamas hanno firmato il cessate il fuoco a Gaza nei colloqui in corso a Doha in Qatar. Tutti i dettagli dell’accordo non sono stati ancora resi noti. La tregua entrerà in vigore da domenica 19 gennaio. Fino a questo momento sono andate avanti le operazioni militari israeliane nella Striscia. La tregua significherà la fine dei raid israeliani a Gaza. Ma non solo, si avvierà una fase di scambio degli ostaggi israeliani, 60 dovrebbero essere ancora in vita dei 250 israeliani catturati da Hamas negli attacchi del 7 ottobre 2023. La metà degli ostaggi israeliani era stata rilasciata nella prima tregua di 7 giorni, tra il 24 e il 30 novembre 2023. In cambio le autorità israeliane rilasceranno mille prigionieri palestinesi.

Nella prima fase, i primi 60 giorni, 33 ostaggi verranno rilasciati mentre l’esercito israeliano (IDF) dovrebbe avviare il ritiro dal Nord della Striscia dove potrebbero rientrare i palestinesi che hanno lasciato le loro abitazioni. Dopo 16 giorni inizieranno i colloqui per definire la seconda fase della tregua in cui saranno rilasciati i rimanenti ostaggi e saranno consegnati i corpi degli israeliani ancora presenti nella Striscia. Nella terza fase sarà avviata la ricostruzione di Gaza. Hamas avrebbe voluto il ritiro completo di IDF prima di rilasciare gli ostaggi. IDF si sta ritirando dal corridoio Philadelphi al confine con l’Egitto, e dovrà farlo anche da Netzarim, al centro di Gaza, dal campo di Jabalia e da Rafah. Le autorità israeliane che hanno accusato Hamas di aver aggiunto ulteriori richieste last-minute ritardando l’approvazione finale dell’intesa avrebbero voluto la fine politica del movimento islamista che governa Gaza prima di aderire alla tregua e in ogni caso non si ritireranno dalla Striscia prima della liberazione di tutti gli ostaggi.

 

L’imminente insediamento di Trump ha pesato sull’intesa

Se Donald Trump ha subito rivendicato un suo ruolo, confermando il coinvolgimento nei colloqui del suo inviato per il Medio Oriente, Steve Witkoff, il presidente uscente Joe Biden ha definito il cessate il fuoco a Gaza come l’“accordo più difficile della sua vita”. Più volte i democratici, inclusa la candidata alle presidenziali di novembre, Kamala Harris, sono stati accusati di aver permesso alle autorità israeliane di commettere un genocidio a Gaza. Una mobilitazione internazionale nei campus universitari, a partire dalle università statunitensi, negli ultimi 15 mesi, ha mostrato una grande solidarietà internazionale a sostegno della causa palestinese.

A confermare che l’intesa fosse a un passo proprio prima dell’insediamento di Trump alla Casa Bianca il prossimo 20 gennaio, sono arrivate le parole del Segretario di Stato Usa, Antony Blinken, al Consiglio Atlantico. Prima di essere interrotto da un contestatore che gli ha rimproverato che sarà ricordato come “il segretario del genocidio per il sangue versato di centinaia di persone innocenti”, Blinken ha sottolineato che Israele deve “abbandonare l’idea di un’annessione de facto” della Striscia sostenendo che è necessario che il Medio Oriente entri “in una nuova realtà” e che sia più stabile e integrato di come lo è stato fin qui. Blinken ha anche fatto riferimento alla possibilità che Gaza e la Cisgiordania siano governate da un’Autorità nazionale palestinese riformata. E all’eventualità di un dispiegamento di forze militari dei paesi arabi confinanti per garantire il rispetto dei termini dell’accordo.

 

Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha più volte fatto saltare il tavolo negoziale. I politici israeliani conservatori temono che la fine delle ostilità possa inasprire la crisi politica, segnata da mesi di proteste anti-governative. In particolare il ministro della Difesa, Itamar Ben-Gvir si era detto contrario a qualsiasi intesa con Hamas, mentre sono andate avanti a Tel Aviv le proteste delle famiglie degli ostaggi e di chi ne chiede la liberazione.

 

Il conflitto israelo-palestinese va avanti

Il cessate il fuoco a Gaza non significa la fine del conflitto israelo-palestinese. La guerra va avanti da quasi ottant’anni e non è iniziata il 7 ottobre 2023, come hanno tentato di far credere le autorità israeliane. La politica delle colonie in Cisgiordania impedisce la creazione di uno stato palestinese indipendente, rendendo difficile l’attuazione della soluzione dei due stati, evocata da politici e diplomatici.

Gaza continuerà ad essere sotto assedio e subirà la presenza permanente dei militari israeliani anche nella fase di ricostruzione. Tel Aviv ha rimesso le mani sulle Alture del Golan, in parte rioccupate da Israele dopo la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria lo scorso 8 dicembre, in violazione degli accordi del 1974. I palestinesi che nel 1948 hanno lasciato le lore case, in molti casi riparandosi in campi profughi che sono diventati veri e propri quartieri a Beirut e a Damasco per esempio, continuano a difendere il loro diritto per il ritorno. Lo status quo della moschea di al-Aqsa, luogo di preghiera per i musulmani e di visita per i non musulmani, continua ad essere messo in discussione così come lo status di Gerusalemme Est che dovrebbe essere la capitale di uno stato palestinese, a cui dovrebbe essere garantita una continuità territoriale assente in questo contesto.

 

Non solo, le autorità israeliane dovranno rispondere delle accuse di genocidio che hanno innescato una mobilitazione internazionale a sostegno della causa palestinese senza precedenti. Lo scorso novembre, la Corte penale internazionale (Cpi) ha emesso mandati di arresto per il premier israeliano Benjamin Netanyahu, il suo ex ministro della Difesa, Yoav Gallant, e per il capo militare di Hamas, Mohammed Deif, per “crimini contro l’umanità” commessi dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023. Netanyahu e Gallant sono a rischio di arresto se si recano nei 125 paesi che hanno firmato il trattato di Roma che ha fatto nascere la Cpi.

 

I numeri dei crimini di guerra

Gli attacchi del 7 ottobre 2023, costati la vita a 1.200 israeliani, hanno dato il via al genocidio in corso a Gaza con oltre 46mila morti, di cui oltre il 70% sono donne e bambini. Eppure secondo i dati pubblicati dalla rivista britannica The Lancet, i morti sarebbero il 40% in più e potrebbero toccare gli 80mila. A Gaza è in corso una catastrofe umanitaria che ha prodotto oltre 2 milioni di sfollati su una popolazione di 2,4 milioni di persone e la distruzione di oltre l’80% degli edifici della Striscia, incluse scuole e università. Anche gli ospedali, come al-Shifa, e i campi profughi, come quello di Khan Yunis, sono stati presi di mira dall’esercito israeliano (IDF) con il pretesto che avrebbero ospitato terroristi.

 

Non solo, con il passare del tempo i crimini di guerra commessi dall’IDF hanno coinvolto tutta la macchina degli aiuti umanitari. Per esempio questo è avvenuto nel caso dell’Ong World Central Kitchen (WCK). Sette lavoratori della WCK sono stati uccisi da un raid dell’esercito israeliano a Gaza dopo aver consegnato cento tonnellate di aiuti a Deir al-Balah. 

Nella guerra hanno perso la vita circa 280 operatori umanitari molti dei quali lavoravano per le Nazioni Unite. Infine, la guerra è stata combattuta contro la libertà di stampa. Sono stati oltre 200 gli operatori dell’informazione uccisi fin qui nel conflitto.

 

La tregua nella Striscia di Gaza aprirà una nuova fase del conflitto israelo-palestinese. In questo contesto, sarà necessario valutare quale sarà il futuro politico di Hamas, che ha trovato una nuova guida nel fratello Mohammed del carismatico leader, Yahya Sinwar, ucciso nei raid israeliani dello scorso ottobre. Vedremo se Hamas potrà mantenere il controllo della Striscia o dovrà acconsentire a un accordo più ampio con l’Autorità nazionale palestinese, al potere in Cisgiordania. E poi è importante verificare se sarà rispettata la tregua in Libano, dopo la nomina del nuovo presidente, con il sostegno di Stati Uniti e Arabia Saudita, Joseph Aoun e del premier Nawaf Salam, marginalizzando sempre di più il ruolo politico di Hezbollah. Sarà necessario valutare come reagirà l’Asse della resistenza al possibile cessate il fuoco a Gaza, in seguito all’indebolimento del movimento sciita libanese Hezbollah, dopo l’uccisione di Hassan Nasrallah lo scorso settembre, e più in generale al ridimensionamento della rete di milizie sciite sostenuta dall’Iran dopo la fine del regime di Bashar al-Assad in Siria. Restano invece molto attive le altre milizie Houthi in Yemen che continuano a colpire direttamente il territorio israeliano. Dal 7 ottobre 2023, il conflitto israelo-palestinese, dopo anni di oblio, è tornato al centro delle agende geopolitiche della diplomazia internazionale. E quindi, qualsiasi siano i risultati dei colloqui di Doha, la pace tra israeliani e palestinesi sarà essenziale per la stabilità del Medio Oriente.

FOTO: Reuters

Pubblicato il

16.01.2025 14:35
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