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The swiss melting pot
di
Silvano De Pietro
Silvano De Pietro Le numerose culture rappresentate da oltre un milione di stranieri sono una ricchezza per la Svizzera. È un’affermazione, questa, che viene ripetuta molto spesso e che può essere dimostrata persino nelle occasioni più ufficiali e celebrative nazionali. «Proprio Expo.02 ha mostrato quanto il nostro Paese si sia arricchito con le culture straniere», ha detto Francis Matthey, presidente della Commissione federale degli stranieri (Cfs), aprendo i lavori di un convegno dedicato al “dialogo delle culture”. Matthey si riferiva alle diverse autopresentazioni “multiculturali” di alcuni cantoni all’Expo.02, nonché all’incontro tra popolazione straniera e indigena che la stessa Cfs e l’Ufficio federale degli stranieri hanno organizzato il 29 settembre scorso sull’arteplage di Yverdon-les-Bains. Tutto questo, però, non significa che la Svizzera, oltre che ospitare tante culture straniere, promuova anche il dialogo interculturale. La vita sociale, professionale e privata degli svizzeri s’intreccia e a volte si scontra con quella degli immigrati, ma i risultati non sono particolarmente incoraggianti: sovente non conosciamo neppure la nazionalità dei nostri colleghi di lavoro stranieri. Da qualche anno la Confederazione ha cambiato politica: parla d’integrazione, promuove appositi programmi e vi investe anche alcuni milioni di franchi. Ma se – come da più parti si afferma – non si vuole un’assimilazione o un adattamento passivo degli stranieri, quale integrazione può esserci senza uno sforzo di comprensione reciproca? Il dialogo delle culture è quindi un momento importante, attraverso il quale si realizza forse la parte centrale di una politica d’integrazione credibile. Ma che cosa s’intende per “dialogo interculturale”? E cosa significa il “confronto tra culture”? Problema centrale, per una società multiculturale come quella svizzera, è la nozione stessa di “cultura”, utilizzata sovente per commentare le opinioni divergenti sulla società e per giustificare i diversi comportamenti verso l’integrazione, nel tentativo di spiegare ciò che appare estraneo. Il recente convegno della Cfs è servito ad aprire un dibattito per analizzare criticamente questa nozione e collocarla nel contesto della politica svizzera d’integrazione. La discussione – che prosegue anche nel primo numero di una nuova rivista semestrale della stessa Cfs, “Terra cognita” (vedi scheda qui a fianco) – ha posto in particolare evidenza due questioni fondamentali. La prima, di carattere generale, riguarda lo scontro tra le culture occidentali e quelle orientali. Certo, dopo il crollo dell’Unione sovietica, i conflitti geopolitici non sono più motivati da ostilità ideologiche o economiche, ma piuttosto da cause culturali. Come si potrebbe altrimenti definire il rifiuto puro e semplice dell’America (e, con essa, di parte del mondo occidentale) di contribuire alla riduzione delle disparità globali in termini di potenza e di prosperità, suscitando sentimenti d’ostilità e creandosi un nemico simbolico nelle altre culture? Interessante, in quest’ambito, l’intervento al convegno della Cfs del giornalista pakistano Tariq Ali, con un’analisi dei rapporti tra mondo occidentale e mondo arabo. La sua critica alla ripartizione del potere a livello globale evidenzia le nuove forme d’imperialismo occidentale e le mette in relazione con ogni fondamentalismo. «Due correnti fondamentaliste s’affrontano nel mondo attuale: quello religioso e quello imperialista. Gli Stati Uniti sono imperialisti e fanatici nel perseguire i propri interessi, tanto quanto i capi islamici». L’altra questione di fondo è la cosiddetta “Kernkultur” (cultura essenziale). Il concetto, elaborato dalla etnologa e sociologa Verena Tobler Linder, tenta di spiegare i problemi che, nel contatto interculturale, generano conflitti. Le differenze tra culture vengono ricondotte alle strutture economiche, alle istituzioni ed ai ruoli sociali. La cultura essenziale dei gruppi ha perciò a che fare con valori imposti, con morali diverse, e quindi concretamente con il diritto moderno ed i suoi intermediari. Capire tali differenze significa pertanto scoprire i punti comuni che uniscono tutti gli esseri di tutte le culture, e gettare la base di un dialogo interculturale che utilizzi particolarità, valori e norme comuni per superare sterili polarizzazioni ed avviare un lavoro d’integrazione reciprocamente utile. Per alcune voci critiche, questo concetto di cultura essenziale è ingannevole e porta ad un’eccessiva semplificazione. L’aspetto culturale della problematica dell’integrazione viene considerato solo alla luce del contrasto tra modernismo e tradizionalismo; ed alla valutazione differenziata dell’individuo si sostituisce una benevola visione globalizzante. Insomma, la “Kernkultur” non sarebbe che un eufemismo per nascondere l’adeguamento puro e semplice che viene preteso dagli stranieri. Forse queste voci critiche hanno ragione; ma l’alternativa (cioè riconoscere la dimensione e la complessità del problema, e quindi prendere in considerazione i rapporti soggettivi interpersonali e non soltanto strutture o sistemi sociali oggettivi) è ancora da definire bene e va dimostrato quanto sia praticabile. Il dibattito, comunque, ora è aperto e prosegue.
Pubblicato il
22.11.02
Edizione cartacea
Anno V numero 35
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