Quando, lunedì 12 novembre, l’airbus A300 si schianta su un quartiere di New York causando la morte di oltre 260 persone, pochi minuti dopo l’apertura dei mercati borsistici il Dow Jones perde 200 punti.
Si teme una riedizione dell’attacco terroristico dell’11 settembre. Subito, però, i media parlano di crash, di incidente. Gli investitori tirano il fiato, e nel corso della giornata, il Dow ricupera alla grande.
Il giorno dopo una banda di assassini libera Kabul da un’altra banda di assassini. Poi, nel corso della stessa settimana, si viene a sapere che gli americani si stanno di nuovo indebitando per acquistare auto e altri beni che altrimenti non potrebbero permettersi. Risultato: gli indici borsistici ritornano ai livelli precedenti gli attacchi di Bin Laden.
Bisogna riconoscere che il relativismo più cinico sta aiutando non poco i mercati borsistici. In fin dei conti un incidente aereo è meglio di un attacco terroristico, e poco importa se l’airbus si è schiantato a causa di una lunga serie di tagli del personale di manutenzione.
Poco importa se la caduta di Kabul significa vuoto di potere e guerra prolungata sicura, oppure se l’aumento dei consumi riflette soltanto l’indebitamento privato delle famiglie americane o la caduta dei prezzi al dettaglio (che gli economisti interpretano con terrore come un segnale di deflazione).
I mercati borsistici «devono» riprendersi, e questo indipendentemente dal fatto che l’economia americana sia entrata nella recessione più lunga dagli anni ’30, che i licenziamenti siano in crescita spaventosa, che la povertà stia ritornando ai livelli gloriosi degli anni reaganiani, che i valori dei titoli non abbiano nulla a che vedere con le prospettive di profitto delle imprese più gettonate.
A tener elevati i titoli borsistici non sono tanto le riduzioni dei tassi di interesse decise dalle banche centrali, quanto piuttosto le «buone notizie». Che sono «buone» se paragonate alle pessime notizie provenienti dall’economia reale.
Potere del linguaggio, non c’è dubbio. Ma anche coazione alla follia di un’economia che negli ultimi anni si è finanziarizzata a tal punto da non lasciar spazio a interventi economici razionali, come le misure sociali di sostegno alle migliaia di lavoratori licenziati da imprese destinate a sicuro fallimento o in fase di drastica ristrutturazione, o come gli investimenti necessari per aumentare la sicurezza delle infrastrutture pubbliche.
Dopo l’11 di settembre si è detto: mai più come prima. C’è di che dubitarne. Non ci si illuda: chi è al potere a rappresentare gli interessi dei ricchi, cioè di quelli che «fanno il mercato», non mollerà l’osso di fronte all’evidenza del fallimento del liberismo.
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