La mano invisibile

Sembrerà paradossale rilevarlo, ma una delle poche certezze che riescono ad accamparsi in  questi tempi è che siamo in pieno clima di elezioni politiche federali. Si susseguono congressi, si spulciano candidati, si creano confraternite per sostenere questo o quella, si accennano strategie, si combinano matrimoni smaccatamente d’interesse, ci si critica e si mandano improperi biblici, si elaborano proiezioni rendendo appagati solamente  gli istituti  algoritmici che fanno solo quello tutto l’anno per radio, televisione, qualche giornale danaroso.
In tutto questo bailamme ad un osservatore attento o un poco appartato non sfuggono due constatazioni di politica economica.


La prima. Prevale una perimetrazione regionale o nazionale e quindi un’astrazione dal contesto mondiale. Ci si mette sempre in una posizione difensivistica, si ha enorme difficoltà a tener conto di ciò che sta succedendo altrove e muove nel bene o nel male idee, forze, condizioni politiche-economiche che fanno il vero “mare magnum” in cui si deve navigare. Rifugiarsi – apertamente chi sa ormai da tempo trarne profitto elettorale oppure con finta distrazione chi teme avversi effetti elettorali – nel concetto di superiorità e di mitica sovranità elvetiche contro l’Europa, soprattutto, senza tener conto di quelli d’Oriente o di Occidente che ci umiliano e condizionano più dell’Europa, non solo ha poco senso della realtà, ma è autodistruttivo.


La seconda. Se si segue il curriculum politico-economico dei partiti e il  modo con cui si ripresentano, nonostante certi rivestimenti climatici, non si riesce a capire, sulla base delle proiezioni, una singolare distorsione. Quella che si ripropone, in percentuali di poco mutate, tra intenzioni di voto e tipologie economiche e sociali che non vi collimano per niente. Si sceglie ad esempio chi è favorevole alle privatizzazioni dei servizi pubblici lamentandosi poi della fine del servizio pubblico; chi pretende restrizioni continue nella socialità o nella solidarietà, pronti poi a imprecare per la situazione in cui finiscono anziani, famiglie, invalidi, giovani disoccupati; chi si oppone ad iniziative per salari più dignitosi, per premi delle casse malati in funzione del proprio reddito, per pigioni equilibrate (in un Paese in cui gli inquilini sono il 70 per cento), per politiche fiscali che non privilegino i ricchi, pronti poi a protestare per  le insufficienze o incongruenze in ognuno di questi ambiti.


Nel primo caso si rimane nella ormai irrealistica e illogica situazione di chi si ferma sempre  sui dettagli, su una falsa o perlomeno nostalgica nozione di sovranità, evitando di risalire  alle cause delle situazioni che si criticano. Ad esempio: non si può discutere di economia o affrontarne i problemi o impostare programmi economici ponendosi semplicemente contro l’Unione europea o la Banca centrale europea o l’Italia o prescindendo da ciò che sta capitando attorno al Mediterraneo o in Oriente o per le arroganze trumpiane. A maggior ragione se non è solo questione di economia che si contrae o di Borse o politiche monetarie che ammattiscono e si è chiaramente di fronte alla dimostrazione che l’ideologia su cui abbiamo costruito tutto ci sta ancora inabissando e forse bisognerebbe pensare in maniera diversa, non ripetitiva, preferibilmente anticipativa.


Nel secondo caso le spiegazioni sono più complesse, anche perché in buona parte psicologiche. Forse qui, più che la politica, potrebbero la cultura o l’etica. Ma, purtroppo, come diceva il buon Marx, sono determinate proprio dal tipo di economia dominante.

Pubblicato il 

12.09.19
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