Tempo parziale

Il nostro Ufficio federale di statistica (www.statistica.admin.ch) sforna regolarmente un imponente numero di dati ed analisi interessanti. Certo, (vedo già molti miei lettori arricciare il naso), il senso comune ci suggerisce continuamente di diffidare delle statistiche. Del resto, ho recentemente sentito un professore di economia che sosteneva che le statistiche sono assolutamente inaffidabili e non servono a nulla. Il mio professore di sociologia, invece, insisteva sempre sulla rigorosità del metodo, unico garante di scientificità quando si vuole analizzare e capire fenomeni legati alla vita sociale. Le pubblicazioni dell'Ufficio federale di statistica hanno il merito di illustrare il metodo utilizzato nella raccolta e nell'analisi dei dati.
Lo studio "Il lavoro a tempo parziale in Svizzera" non ha ricevuto molta considerazione dai media nostrani. È uscito in luglio, notoriamente il luglio più caldo da quando vengono rilevate le temperature (anche questa è statistica…), e la canicola teneva banco. E poi, la pubblicazione di questa ricerca, che conferma una tendenza in atto da un trentennio, non è una notizia. Resta il fatto che lo studio ribadisce l'accentuarsi di un fenomeno con il quale presto o tardi ci troveremo a fare i conti: l'aumento delle persone che, per amore o per forza, lavorano a tempo parziale. Se nel 1970 l'11 per cento della popolazione attiva occupata lavorava a tempo parziale, nel 1980 la percentuale raggiungeva il 15 per cento per passare al 19 per cento nel 1990 e raggiungere il 32 per cento attuale. Oramai, quasi una persona su tre lavora a tempo parziale. E se ci limitiamo al solo settore terziario (quello dei servizi, cioè: negozi, banche, assicurazioni, amministrazione pubblica, servizi postali, servizi socio-sanitari, ristorazione, insegnamento, ecc. ecc.), la proporzione di lavoratori occupati a tempo parziale è del 38 per cento. Ma i dati più interessanti sono altri, e riguardano i motivi che i lavoratori e le lavoratrici forniscono come spiegazione del loro tempo parziale. Scopriamo così che il 42 per cento indica non meglio precisati "motivi famigliari", il 14 per cento spiega che "non vuole un lavoro a tempo pieno", il 9 per cento afferma di essere ancora agli studi, il 6 per cento di non "aver trovato un tempo pieno" ed un altro 6 per cento di avere (almeno) "un'altra occupazione".
Queste ultime cifre evocano il discorso del sotto-impiego, cioè la situazione di quelle persone che vorrebbero ma non riescono a lavorare di più. Del resto, sarebbe interessante sapere in dettaglio quante delle persone che hanno invocato dei motivi famigliari, abbiano realmente scelto di lavorare a tempo parziale. Si può in effetti legittimamente supporre che la carenza cronica di strutture d'accoglienza idonee per i bambini costringa molte persone (in primis le donne) a "ripiegare" sul tempo parziale. Secondo le stime dell'Ufficio federale di statistica, le persone sotto-occupate rappresentano il 9 per cento della popolazione attiva!
La natura del tempo parziale è ambigua. Non si tratta né di demonizzarla né di mitizzarla. Di certo solleva un interrogativo ineludibile: quale è e quale dovrebbe essere il rapporto tra economia e lavoro? Perché se, come ci dicono gli economisti, la nostra economia va meglio, l'aumento del tempo parziale ci conferma nuovamente che il lavoro è in crisi.

Pubblicato il

01.09.2006 13:30
Mauro Marconi