C’è chi parla, quasi esaltandosi, di telerientro. Pensando alla suggestiva “scoperta” pandemica, nella scuola e in altre attività economiche: il telelavoro. Con tre ragioni: essere pronti e lottare contro una ripresa della pandemia, rispondere alle attese di un buon numero di lavoratori e lavoratrici, guadagnare in efficacia. Se le due prime ragioni non sono da ignorare, la terza è quella che fa più discutere. È stata definita da alcuni economisti (ma anche dal sindacato): zona pericolosa. Perché dietro quel termine, efficacia, si nasconde un altro termine: utilità. Utilità delle ore lavorate, utilità di alcune funzioni, utilità di alcune mansioni o realtà conviviali. Con il telelavoro scompare molto di ciò che, genericamente, ma con importanza, chiamiamo “lavoro”: dagli spostamenti casa-lavoro, all’ambiente in cui si lavora o ai contesti operativi, ai rapporti tra persone o interprofessionali. C’è chi intravede finalmente una possibile soluzione ai problemi di traffico (dimenticando che nel frattempo si moltiplica il traffico delle consegne ordinate on-line). C’è chi invece si preoccupa maggiormente del disfacimento di ogni momento di socializzazione, del rintanamento e dell’isolamento del lavoratore. Scompaiono le pause, i pasti presi assieme, i cosiddetti (con l’immancabile inglese) “afterworks”, intesi come momenti conviviali con i colleghi. Tutto il resto (le riunioni, le conferenze, i corsi) può essere svolto a distanza con enormi vantaggi di costi e di logistica. Si è così imposta, quasi senza accorgersene, una distinzione essenziale, alla quale si dava poco peso: quella tra tempo al lavoro e tempo di lavoro. E anche l’interrogativo che ne consegue: quale è lo scarto accettabile tra l’uno e l’altro? Un responsabile delle risorse umane (il capo del personale) diceva in sostanza, in una intervista televisiva, ch’era arrivata la volta buona per «razionalizzare tutto», sia eliminando i «tempi inutili del management», sia sopprimendo tutti i «tempi improduttivi». Sapeva di gioco ai tarocchi, esponeva i primi per far passare i secondi. Che in realtà significano, senza illazione, buona occasione per la soppressione di tutti gli “improduttivi”. Persone con i loro tempi “inutili”. Opportunità quindi di più competitività, di ulteriori maggiori profitti, eliminando lavoro e costi, più che opportunità per esaminare, a fini umani e societari, modalità diverse di lavoro e di miglior ridistribuzione dei guadagni ottenuti. Insomma, la solita avidità cortoterminista (vedere come far subito più denaro per alcuni a spese di altri), ignorando tutto ciò che salterà fuori a medio termine: disoccupazione, perdita di senso per il lavoro, isolamento che gioverà ancora alla già sistematica frammentazione del mondo del lavoro, depressioni a catena anche per la mancanza di quella relazionalità che giova allo spirito prima ancora che al corpo, perdita di qualità che si fonda sempre sul “fare-assieme”. Potrà sembrare paradossale rilevarlo, ma telerientro o telelavoro indicano che la vera questione che si pone è quella dell’utilità del lavoro. E su uno degli aspetti più importanti: quei tempi che si definiscono “improduttivi” e che sarebbe invece più giusto definire “indirettamente produttivi” perché contribuiscono alla salute dell’ambiente produttivo, alla relazione tra le persone e quindi alla qualità del prodotto o del servizio. E sono proprio quei tempi su cui si accanisce l’economia del maggior profitto, da ottenere con la maggior “performance” possibile, eliminando tempi, spazi, persone. Come permetterebbe il telelavoro. Per questo “zona pericolosa”.
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