Che cosa vuole questo Consiglio federale? E questa maggioranza politica di chiaro orientamento liberale che domina nel governo e nel parlamento? A domandarselo, dopo quello che sta succedendo con Swisscom, oggi sono in molti. E non soltanto a sinistra: anche il Ppd sembra contrario alla privatizzazione del “gigante blu”. Non c’è, insomma, solo un’opposizione di principio alla privatizzazione di un servizio pubblico, ma anche un certo disorientamento di fronte a decisioni che appaiono contraddittorie e le cui motivazioni, condivise o meno, restano difficili da capire. Riassumiamo la vicenda. Mercoledì 23 novembre il Consiglio federale tiene la sua seduta settimanale. Ma nell’informazione ai media che segue la riunione non viene detto nulla di una seduta straordinaria del governo in programma per quella sera. Solo a fine giornata appare la convocazione di una conferenza stampa per la mattina seguente, alla quale si presenta il consigliere federale Hans-Rudolf Merz per annunciare – a sorpresa – che il governo ha deciso di vendere ai privati la partecipazione azionaria della Confederazione al capitale di Swisscom (66,1 per cento, del valore di circa 17 miliardi di franchi). In un primo momento le azioni in mano pubblica dovrebbero scendere al 50 per cento più una; poi dovrebbe restare solo una quota di minoranza con un diritto speciale di blocco. Il governo giustifica i suoi piani con la necessità di minimizzare i rischi dell’investimento pubblico e di garantire maggiori margini di manovra a Swisscom, in particolare in vista di acquisizioni all’estero. Le prime reazioni sono comprensibilmente forti. Il Sindacato della comunicazione parla senza mezzi termini di «dichiarazione di guerra al servizio pubblico». Sostiene che se la Confederazione dovesse sganciarsi da Swisscom ne risentirebbe la qualità delle prestazioni e sarebbe in forse il servizio pubblico. E minaccia di ricorrere al referendum. L’Uss giudica i piani del Consiglio federale «sbagliati, poco lungimiranti e di natura puramente ideologica». Il governo vuole «vendere la gallina dalle uova d’oro» senza spiegare di quali rischi stia parlando, dal momento che «Swisscom è sana e si muove in un mercato dinamico in piena espansione». Il Pss è decisamente contrario a quella che definisce una «decisione affrettata e totalmente sbagliata». Anche per il Ps non vi sono dubbi sul lancio di un referendum. Persino per il Ppd il governo ha preso una decisione errata. Soltanto il Prd e l’Udc si dicono completamente d’accordo con la privatizzazione di Swisscom. La questione sembra finire lì, almeno per il momento, dato che occorre una modifica della legge per la quale ci vuole un bel po’ di tempo. Ma venerdì 25 novembre, su pressione di Christoph Blocher, il Consiglio federale proibisce a Swisscom di fare acquisizioni all’estero. In ballo ci sono due affari importanti: l’acquisto della irlandese Eircom e della danese Telecom. Questa volta le reazioni sono di maggiore sconcerto: molti osservatori giudicano assurda tale decisione e si chiedono dove voglia andare il governo e come reagirà il vertice di Swisscom. Blocher e Merz si affrettano a spiegare che il governo non vuole correre troppi rischi con il denaro dei contribuenti. In effetti, secondo alcuni analisti Eircom sarebbe sopravvalutata, e l’investimento nella danese Telecom sembrerebbe troppo caro. Ma la frenata imposta dal governo appare comunque troppo energica ed ingiustificata. Lunedì le azioni Swisscom perdono valore in borsa per 1,5 miliardi di franchi. A Palazzo federale, la sinistra chiede un dibattito urgente, mentre parlamentari e giornalisti si chiedono se e fino a che punto i vertici di Swisscom possano proseguire ugualmente sulla strada delle acquisizioni all’estero, avviando un braccio di ferro con il Consiglio federale. Per qualcuno, il governo avrebbe l’impressione che le acquisizioni all’estero non siano altro che il tentativo del presidente del consiglio d’amministrazione di Swisscom, Markus Rauh, di conseguire un prestigioso traguardo prima di lasciare l’incarico (che scade in primavera). E Rauh non rischia il suo denaro, ma quello dei contribuenti. Veleni, o verità? Una cosa è certa: con il suo tentativo di dimostrare a tutti i costi che la Confederazione «non è più l’azionista adeguato per Swisscom», il ministro delle finanze Merz sta giocando in modo pesante nei confronti della direzione di Swisscom e dello stesso parlamento (il Sindacato della comunicazione parla persino di «ricatto»). «Noi ci opponiamo a qualsiasi vendita di azioni che porti la partecipazione della Confederazione nella Swisscom al di sotto del 51 per cento». Risponde così Giorgio Pardini, vicepresidente del Sindacato della comunicazione, alla domanda di commentare le ultime novità nel caso Swisscom. «Siamo dell’avviso che Swisscom abbia una funzione pubblica e debba rimanere nelle mani dello stato, perché vediamo come le società che sono state privatizzate del tutto, specialmente nelle telecomunicazioni, ora sono in balia delle speculazioni finanziarie. In particolare Swisscom, che finanziariamente sta molto bene, sarebbe oggetto di speculazione. Inoltre, penso che investire all’estero rispecchi attualmente anche la volontà del parlamento e del governo, poiché ancora in settembre, nel documento sulle strategie della Posta e di Swisscom, veniva sottolineato che ci si attendevano investimenti da parte di Swisscom all’interno del paese ma soprattutto all’estero». Nel comunicato del Sindacato della comunicazione, si dice che “il consigliere federale Merz ricatta il parlamento”. Perché? È un ricatto. Soprattutto questa proibizione a Swisscom di investire all’estero è un ricatto, dal momento che si afferma che lo stato non vuole correre nessun rischio finché è azionista maggioritario. E per essere coerenti con questa logica, parlamento e governo dovrebbero rimettere in discussione la loro strategia. Tuttavia, nell’investire all’estero ci sono davvero dei rischi. O no? Ma vede, i rischi, specialmente in questo settore delle telecomunicazioni, ci sono sempre. Un rischio, per esempio, è che la Swisscom non possa crescere perché il mercato svizzero è quello che è: ne ha più o meno il monopolio, e deve tener conto degli interessi degli azionisti e quindi della Confederazione. E se Swisscom non può crescere, ci sarà un’ulteriore riduzione dei posti di lavoro. Questo è ovvio: non possiamo pensare che Jens Alder sia un assistente sociale, perché se non può far crescere il capitale, riduce gli effettivi in modo da aumentare ogni anno il guadagno, come ha fatto finora. La stampa confederata ipotizza che i vertici di Swisscom (eventualmente dopo la loro sostituzione) obbediscano al Consiglio federale, oppure che facciano resistenza senza temere il confronto con il potere politico. In questo caso, quale sarebbero le conseguenze per il personale? A medio termine, sicuramente il personale dovrà pagare questo conflitto, in quanto attualmente la Swisscom ha perso credibilità sia all’estero che all’interno. Inoltre, se ci sarà un braccio di ferro (che io ritengo poco probabile), sarà l’assemblea degli azionisti ad affrontarlo, perché il confronto si svolgerà lì. È ovvio che la Confederazione, avendo la maggioranza, potrà imporre la sua strategia, e questo porterà inevitabilmente alle dimissioni dei vertici di Swisscom. Però, forse c’è un’altra opzione. Quale? È un’ipotesi di alcuni analisti, apparsa sulla Nzz e che io condivido. Dopo questa opposizione massiccia ad una liberalizzazione completa con la privatizzazione di Swisscom, dopo i recenti sondaggi secondo cui almeno il 50 per cento della popolazione dice no alla privatizzazione di Swisscom, io penso che la Confederazione possa cercare un compromesso consistente nel limitarsi a fissare un tetto massimo per gli investimenti all’estero. E questo compromesso sarebbe accettato dal sindacato? Per noi è importante che non vi siano investimenti fatti nell’ottica della speculazione finanziaria. Secondo me, quello che conta per noi è che questo investimento nella Eircom – società ex-monopolista che possiede la rete fissa – sia un investimento in un settore che Swisscom conosce molto bene. In effetti, se il futuro delle telecomunicazioni sta non tanto nella trasmissione della voce, quanto dei dati (cioè dei contenuti, come video, suoni, eccetera), allora Swisscom potrà entrare in questo mercato delle nuove tecnologie che “incrociano” diversi media (“crossmedia”) soltanto se avrà ovviamente dei partner anche all’estero e con il capitale per acquistare diritti e licenze. Quindi, il sindacato è per un’espansione misurata, controllata, di Swisscom. Giustamente. E questo, poi, garantisce a lungo termine i posti di lavoro dentro Swisscom. Accade già adesso: con piccoli “spin-off” all’estero, come in Polonia, si possono collaudare prodotti da impiegare poi negli acquisti e garantire posti di lavoro in Svizzera altamente qualificati. Penso che anche come sindacato dobbiamo valutare queste possibilità in modo pragmatico e meno ideologico.

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02.12.05

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