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Tanto sesso siamo francesi
di
Gianfranco Helbling
C’è nel cinema francese di questi ultimi anni una tendenza che sta diventando un genere: mostrare la vita erotica e la sessualità umane con un naturalismo senza compromessi. Finora il film di maggior successo che vi si rifà è Intimité di Patrice Chéreau, Orso d’oro a Berlino 2001. Però questo filone dal punto di vista registico si coniuga soprattutto al femminile, con una predisposizione per l’abbattimento delle ultime barriere censorio-morali. Basti ricordare l’assurdo scandalo creato al Festival di Locarno dello scorso anno su Baise-moi di Virginie Despentes e Coralie Trinh Thi, scandalo che impedì una vera discussione sui pregi e sui difetti di un film che mostrava lo stupro in tutta la sua animalità. Al recente Festival di Cannes è poi passato Clément di Emmanuelle Bercot, storia d’amore e sesso mostrata senza troppi pudori fra una lei trentenne e un lui tredicenne. Ma la vera capofila di questo genere è Catherine Breillat, regista sperimentata di cui la storia del cinema preferisce ricordare per ora 36 fillette del 1988. Una costante di Breillat è il tentativo di spingere lo sguardo del cinema sulla sessualità oltre le posizioni acquisite, al motto "meglio la pornografia che l’erotismo, è più vera". Di lei negli ultimi due anni si sono visti anche in Ticino due film. Il primo era Romance, famoso perché, come in Baise-moi, ogni atto sessuale, mostrato senza alcuna inibizione, era reale e perché Rocco Siffredi vi esibiva con orgoglio il suo bel membro in tutta la sua potenza (salvo diventare straordinariamente comico non appena apriva bocca, epico il suo "Tu veux que je t’encule" con accento de Roma). Di poche settimane fa è stata l’uscita di À ma soeur (pure passato a Berlino), cruda storia dell’iniziazione sessuale di due sorelle adolescenti (15 e 13 anni), una bella e scomplessata, l’altra grassa e inibita, che finisce in tragedia. I due film di Breillat sono brutti, non per il tema, per la regia coerente, per la recitazione o per la realizzazione, ma per le sceneggiature così banali da essere stomachevoli, incapaci di reggere 90 minuti e zeppe di luoghi comuni (perché lo stallone di turno dev’essere sempre italiano?). Questo genere di critica però è inammissibile, chi lo fa rischia l’accusa di moralismo bacchettone o peggio di voler negare uno sguardo femminile sulla sessualità. Così, contro ogni logica, le lodi a Breillat si sprecano. E a chi osserva a proposito di À ma soeur che l’esibizione della sessualità di due adolescenti non è priva di rischi, lei replica che "non è giusto negare loro un corpo e una storia. Eppoi parlare di loro è legittimo, è usarle come oggetti di piacere che non lo è". Il problema è che a ridurle ad oggetti di piacere non è lo sguardo della regista, ma semmai quello della singola spettatrice e del singolo spettatore.
Pubblicato il
25.05.01
Edizione cartacea
Anno IV numero 18
Rubrica
Cinema
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