Chiude la Hanro Nova, ditta di confezioni di Novazzano, appartenente al gruppo austriaco Huber Holding Ag. Chiude in Ticino ma trasferisce la produzione in Portogallo. 122 le persone che perderanno il posto di lavoro, in gran parte frontalieri. La notizia è arrivata come un fulmine a ciel sereno perché il gruppo nel complesso gode di una buona salute finanziaria. Con Rolando Lepori, segretario cantonale dell’Flmo (Sindacato dell’industria e dei servizi), abbiamo affrontato la questione dal profilo sindacale. Nel caso particolare non sarà la Flmo a portare avanti le trattative quale controparte sindacale per l’allestimento del piano sociale (promesso dalla Hanro). Tuttavia Lepori ci spiega la strategia che il sindacato adotta in casi simili: «quando dei lavoratori rimangono senza impiego a causa di una ristrutturazione noi cerchiamo di ricollocarli nel più breve tempo possibile. Non necessariamente nella stessa professione». La Hanro, ricordiamolo, rispetto al mercato ticinese, coi suoi 122 dipendenti, si può considerare un’azienda di dimensioni importanti. Una ditta niente affatto in difficoltà economiche, anzi. Se gli obiettivi finanziari sono stati pienamente raggiunti perché trasferirsi? Lo stesso Lepori si dichiara perplesso di fronte alla repentina decisione: «deve trattarsi di una scelta strategica per incrementare gli utili. Evidentemente i guadagni attuali non bastano». È difficile non temere che una simile condotta si generalizzi nel settore dell’abbigliamento in Ticino. Chissà mai che in futuro altre aziende si accodino alla Hanro trasferendosi verso nuovi lidi non paghe degli utili conseguiti. «È indubbia la concorrenza soprattutto dell’Est europeo e dell’estremo Oriente – , conferma Lepori –. Dal profilo salariale non possiamo competere». Il problema si pone in special modo per gli abiti a basso costo destinati ai grandi magazzini. Dobbiamo reagire indirizzandoci verso «la produzione di abiti con un marchio: così si ottiene il valore aggiunto». In Ticino sono già in atto dei cambiamenti nel settore tessile. O meglio nel settore dell’abbigliamento, dato che non si producono filati o tessili ma si lavorano tessuti per confezionare abiti. Rolando Lepori ci spiega che sarà «il tipo di produzione a cambiare». Negli ultimi anni, infatti, si sta cercando di «portare in Ticino centri di competenze piuttosto che la produzione in sé». E Lepori avverte che «numerose aziende si stanno concentrando soprattutto sulla ricerca tessile e non nel taglio e cucito vero e proprio». Dunque per il futuro bisognerà pensare anche ad «una formazione professionale più specifica». Questa trasformazione dovrà poi essere affrontata anche per quanto riguarda il Contratto collettivo di lavoro (Ccl). «Noi sindacati – ci spiega Lepori – avevamo proposto di far rientrare nel Ccl anche i reparti tecnici delle aziende e non solo gli operai di produzione. Questo perché ci siamo resi conto che lo sviluppo va in quella direzione». A livello nazionale vige un Ccl per il settore tessile e in Ticino esiste un Ccl per l’abbigliamento. Ma i tre quarti delle aziende dell’abbigliamento sono concentrate nella Svizzera italiana. Come si spiega l’attrattiva del Ticino per il settore? «I salari sono più bassi rispetto al resto della Svizzera. Ed è più facile reperire manodopera qualificata. In tal senso il bacino della Lombardia è pressoché inesauribile». Un aspetto cruciale se consideriamo «l’importante rotazione di personale nel settore». Il 98% dei lavoratori impiegati nel settore dell’abbigliamento sono frontalieri. Cosa cambierà dopo la recente entrata in vigore dei trattati bilaterali con l’Unione europea? Risponde ancora Lepori: «il Ccl stabilisce dei minimi salariali e ciò dovrebbe tutelarci dai rischi di dumping. A dire il vero la maggior parte di queste donne già lavora percependo il minimo salariale...». Argomento che sta sempre a cuore del sindacato. Lepori conferma: «stiamo agendo su due fronti: diminuire gli orari lavorativi e aumentare i minimi salariali». Fino al 2005 gli aumenti di paga sono già stati pianificati e iscritti nel Ccl valido fino a quella data. Con Franco Cavadini, presidente dell’Associazione fabbricanti del ramo abbigliamento (Afra), abbiamo invece discusso dello stato di salute del settore in generale: «si è registrato un calo delle ordinazioni dall’America e anche dalla Germania. Sono clienti importanti ma stanno passando un periodo di lieve recessione, o meglio, di non crescita». Questo da una parte ma dall’altra «il settore si è rafforzato con l’insediamento di aziende internazionali, la maggior parte italiane e, anche, grazie a ditte ticinesi che da anni operano in loco. Si tratta perlopiù di ditte che confezionano capi di valore». Si può dunque affermare che il caso Hanro non rientra in una casistica generalizzata? Cavadini lo esclude, «addirittura ci sono ditte che ritornano». In più «non è sempre detto che sia così proficuo trasferirsi all’estero. Tutto dipende dal prodotto che si fabbrica». Anche Cavadini sottolinea la necessità di indirizzarsi verso una produzione di qualità: «riescono a sopravvivere le ditte che confezionano abiti di qualità e hanno una nicchia di mercato esclusiva». Mentre per la produzione di serie vale un altro discorso ed è proprio quest’ultima ad essersi «trasferita all’estero a partire dall’inizio degli anni ’90». Cavadini segnala un altro cambiamento del settore: «sono scomparsi i terzisti (chi confeziona su richiesta di un committente, ndr). Un tempo c’erano delle commesse pubbliche che garantivano del lavoro. Per esempio l’esercito commissionava gli abiti per l’equipaggiamento militare. Oggi, grazie ad accordi internazionali, si producono all’estero». Come giudica Cavadini la scelta della Hanro che, pur non essendo fallimentare, ha deciso di trasferire la sua produzione? «A parer mio è più logico cercare di cambiare mercato o obiettivi. Ovviamente non sono soluzioni facili da elaborare». Un’ultima nota. Il 90% delle ditte attive nel settore sono situate nel Mendrisiotto. Oltre alla vicinanza con l’Italia che assicura la reperibiltià di manodopera ci sono altre ragioni. «Anche la vocazione – racconta Cavadini – ha inciso. All’inizio del secolo, sempre in questa regione, si era insediata la coltivazione del baco da seta. L’industria serica era collegata col quella del Comasco. In seguito si è passati alla confezione. Alla camiceria, per l’esattezza. Infine a tutti gli articoli d’abbigliamento per ogni bisogno e attività». Dal passato ai giorni d’oggi il settore è cambiato. E sta tuttora cambiando. Come abbiamo sottolineato, si va nella direzione di una produzione di qualità, l’unica davvero concorrenziale in Ticino. Naturalmente il sindacato auspica soprattutto il miglioramento della qualità delle condizioni lavorative nel settore dell’abbigliamento.

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07.06.02

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