Appare incredibile dover rilevare come la “diseguaglianza” sia diventata problema là dove meno te l’aspetti. Anche per la compagnia eccelsa di quelli che ogni anno confabulano a Davos sui problemi del mondo e sugli inghippi dell’economia globale (tra i capi, ed è fatto correlato, ne mancavano alcuni contestati nel loro paese). Non è che ci sia ravvedimento morale-etico-sociale. La vera ragione, com’è già avvenuto per le organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario o la Banca Mondiale, è che si deve constatare come ci sia uno stretto legame tra crescita e diseguaglianza e che non è vero che la ricchezza di pochi finisce per “sgocciolare” su tutti, come da cinquant’anni è dogma economico. Per dirla in termini spicci: se vuoi crescere devi anche ridistribuire; se concentri la ricchezza ti suicidi. Non è detto, però, che ci si sia accorti che ci vorrebbe un modo diverso di vedere le cose o fare politica. In un’economia di mercato, com’è la nostra, la distribuzione del reddito rimane fortemente diseguale se manca un intervento pubblico correttivo del reddito. Non a caso sono entrati nel linguaggio economico o statistico i termini di “reddito primario” e di “reddito disponibile”. Che è poi la differenza tra quanto si guadagna sul mercato e quanto ci si ritrova in tasca dopo l’intervento redistributivo dello stato (che avviene con le tasse e gli interventi sociali). Quindi, va da sé, che se si vuole il discorso serio, la progressività fiscale (chi più ha o più è ricco più deve dare e non il contrario) e la riduzione delle disparità di reddito tra i cittadini e i lavoratori attraverso la politica sociale sono i punti di passaggio necessari. In economia per spiegare situazioni inspiegabili si inventano alle volte espressioni che i fini letterati definiscono “ossimori”, che significa unire due concetti o due parole di segno opposto. Incerti su un’economia che non si sa dove stia andando, si è inventata l’espressione “crescita recessiva”. I conservatori americani parlano di “new normal” (un normale nuovo). Si vuole indicare bassa crescita, poca inflazione, diseguaglianze crescenti, dominio incontrastato della finanza. Non è fatto transitorio, ci si dice, è ormai sistema, duraturo. Un aumento dell’occupazione non deve trarre in inganno, perché si tratta di un’occupazione perlopiù precaria o minacciata da robotizzazione, che favorirà ancora la tendenza alla concentrazione dei redditi. Non devono neppure trarre in inganno i tentativi di drogare momentaneamente l’economia, con riduzioni della pressione fiscale di segno inversamente proporzionale alla ricchezza. Uno dei migliori economisti americani, Dani Rodrik, insegnante ad Harvard, ha scritto recentemente un saggio (suggerisce tra l’altro alla vuotaggine dei politici attuali di ripensare almeno alla politica economica proposta da Roosevelt nella crisi degli anni Trenta) in cui propone di superare semplicemente tre attuali dogmi devastanti: il primo è che aumentare l’imposizione del capitale in un paese fa fuggire inevitabilmente i ricchi; il secondo è che frenare i movimenti di capitali (speculativi) nuoce all’investimento; il terzo è che il protezionismo, se ragionato, non conduce sempre necessariamente alla catastrofe. Ammette che in quei precetti possa esserci anche del vero, ma adottandoli come verità indiscutibili i governi hanno ignorato tutti i mutamenti che fragilizzano ora le nostre società e hanno così preparato il tappeto rosso a quei movimenti che... richiamano gli anni Trenta.
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