Milano, 12 dicembre 1969. Nel salone degli sportelli della Banca nazionale dell'agricoltura, al numero 4 di piazza Fontana, esplode una bomba. Muoiono 16 persone, 84 rimangono ferite. Lo Stato italiano – e per esso i suoi servizi segreti – punta il dito contro gli anarchici. Si apre la caccia all'uomo rosso.
Muronico, Val d'Intelvi, 1. gennaio 1970. Due uomini, più un terzo che fa da apripista, si dirigono svelti verso il Monte Generoso, che conferisce un'altezza al confine tra l'Italia e la Svizzera. Camminano. Uno di loro ha un cappello vistosamente calato sul volto. Gli altri, scarponi e giacche pesanti, ché la neve venuta giù i giorni prima è lì da misurare. Camminano. Scivolano. Si rialzano. Si dirigono verso la Val Mara. Dopo qualche ora raggiungono Mendrisio. Alla stazione dei treni, i tre si salutano. Due devono tornare indietro. L'altro prende il diretto per Zurigo. Non lo avevano fatto prima: adesso si presentano: Piacere – dice quello con il volto coperto – sono Giangiacomo Feltrinelli.

Per Francesco Bellosi, lariano di Colonno, paese di lago e di contrabbando, quello di Feltrinelli è il primo passaggio clandestino dall'Italia alla Svizzera. Ha ventun anni qualcosa, Bellosi, quando quelli di Potere Operaio – il movimento della sinistra extraparlamentare fondato nel 1967 da Oreste Scalzone, Franco Piperno e Toni Negri – gli chiedono di "portare di là", in Ticino, il primo di una lunga serie di compagni che con lui e come lui hanno scelto la lotta armata.
Quella che segue è dunque la testimonianza di un uomo che ha partecipato a quelle lotte e a quegli anni, che ci misero proprio poco a diventare di piombo. Bellosi è stato arrestato nel 1982 e poi condannato a dodici anni di carcere per rapina e per banda armata. Ne ha scontati una decina. Da qualche anno lavora in una Comunità di aiuto per malati di Aids.
Lo abbiamo incontrato a Lanzo d'Intelvi, e con lui ci siamo incamminati, trentasei anni dopo, sui sentieri della latitanza, lungo il confine italo-svizzero.
«Dopo la strage di piazza Fontana», ci dice, «Giangiacomo Feltrinelli si trovò – ovviamente suo malgrado – in una situazione molto difficile: i servizi segreti italiani – che all'epoca erano pesantemente condizionati – stavano cercando di far quadrare il cerchio secondo cui la bomba di Milano era stata messa da gruppi estremisti di sinistra, e Feltrinelli doveva essere in qualche modo il regista di questa operazione. Per questo preferì riparare per qualche tempo in Svizzera».

Bellosi, perché la lotta armata?
Perché c'era la sensazione di appartenere ad una grossa avventura collettiva, di essere parte di un tutto; c'era l'orgoglio di vivere dall'interno queste vicende: per me, poi, che ero un ragazzino, sentire addosso la fiducia di persone come Oreste Scalzone o Toni Negri – che erano un punto di riferimento per la loro intelligenza – significava essere investito ancora di più di questa responsabilità.
Veniamo ai collegamenti con la Svizzera, con il Ticino. Come si concretizzò la rete italo-svizzera?
Più correttamente bisogna parlare di due reti: la prima era stata costruita da Giangiacomo (Feltrinelli, ndr), ed era una rete di suoi contatti, di suoi rapporti probabilmente pregressi: teniamo conto che lui apparteneva ad un'altra generazione rispetto alla nostra, e che aveva una lunga esperienza alle spalle. La nostra rete, quella di Potere Operaio e di Lavoro Illegale, venne costituita più tardi, sulla base di alcune lotte che tra il 1968 e il 1969 raggiunsero anche le fabbriche del canton Ticino, e fecero sorgere alcuni gruppi con caratteristiche da sinistra extra parlamentare. Però non mi chieda di fare nomi e di indicare luoghi.
D'accordo. Però ci faccia capire meglio: come avvenivano questi passaggi?
La premessa resta la situazione italiana di quegli anni: era una realtà a rischio per noi che facevamo parte dei gruppi "dissidenti"; una realtà che imponeva soggiorni all'estero per evitare guai con la giustizia italiana. La Svizzera, il Ticino non erano considerati come base per una permanenza stabile; piuttosto erano luoghi di passaggio e di appoggio per i compagni che dovevano lasciare definitivamente l'Italia oppure farvi rientro non appena la situazione lo rendeva possibile. In questo senso i compagni ticinesi si dimostrarono molto disponibili, molto bravi e solidali. In sintesi, noi accompagnavamo "di là" i compagni che poi venivano ospitati dai ticinesi; in alcuni casi affittavamo noi stessi, per tramite di persone "pulite", degli appartamenti per brevi periodi.

Bellosi adesso si ferma. Fa una pausa, mentre percorriamo il sentiero scoperto – poco incline, vien da pensare, alla fuga – che porta al Monte Generoso. Sembra di sentire – ma è probabile che sia il vento – il suono di passi antichi.
«La vede quella?».
«Sì».
«Quella lì è la cima del Generoso. Da qui ha una strana forma. Tanto strana che nell'immediato dopoguerra alcuni esagitati vi avevano ravvisato una somiglianza con il volto di Benito Mussolini: avevano fatto richiesta di farla saltare, quella cima, per togliere di mezzo la roccia che assomigliava, secondo loro, al Duce. Assurdo, vero? Ma di personaggi strani ce n'erano anche prima di noi…».

Francesco Bellosi, fino a quando ha fatto da guida ai suoi compagni, a coloro che si davano alla latitanza?
Fino al 1974: in quell'anno il flusso si interruppe; la lotta armata assunse una caratteristica più connotata, più determinata, e le persone non pensarono più a scappare: al massimo andavano clandestine. Per contro, qualche anno prima, nel 1972, poco dopo la morte di Feltrinelli, ci fu una retata molto ampia che portò in carcere i primi appartenenti alle Brigate Rosse. Fu l'anno in cui Curcio e Franceschini andarono latitanti. Ecco, dopo quella retata molti compagni rimasero senza collegamenti, erano allo sbando, e diversi di loro ci chiesero di essere accompagnati in Svizzera per riallacciare da lì i loro contatti.
Fu quello il periodo più intenso di passaggi?
Sì, tra il 1972 e il 1973. Non ricordo quanti ne accompagnai, ma certamente diverse decine. L'ultimo passaggio credo di averlo fatto nel 1974, anche perché – come dicevo – da lì via le cose cambiarono: ci eravamo affinati, avevamo documenti falsi, fatti bene, e non c'era più quel vento naif dell'inizio, quando tutto era da inventare perché non c'era un'esperienza alle spalle. Dal 1974 le cose cambiarono.
E proprio in quegli anni lei accompagnò in Ticino, due dei tre autori del Rogo di Primavalle: Manlio Grillo e Marino Clavo. Due dei tre, cioè, che la notte dal 16 aprile 1973 misero una tanica di benzina fuori dall'abitazione di Mario Mattei, segretario della sezione di Primavalle del Movimento sociale italiano. Voleva essere un'azione dimostrativa contro i fascisti del quartiere romano di Primavalle, ma tra le fiamme morirono i due figli di Mattei. Perché lo fece?
Lei mi chiede perché ho portato "di là" quelle persone. Perché erano comunque dei compagni, e per quanto aberrante fosse la vicenda del rogo di Primavalle il mio compito era di assolvere a questo dovere. Tenga conto però di una cosa: quando Scalzone mi chiese di accompagnare in Ticino Clavo e Grillo (Achille Lollo era già stato arrestato) non sapevamo ancora come erano andate esattamente le cose. Marino Clavo (con il quale passai un paio di giorni in una baita di montagna, perché in Ticino non era ancora pronto l'appartamento per accoglierlo) mi raccontò che quella vicenda l'avevano ideata loro tre, e che i vertici di Potere Operaio non ne sapevano nulla. Mi ricordo l'incontro con questo ragazzo: era spaventato, terrorizzato per l'esito dell'azione che avevano compiuta. Mi raccontò che i vertici di PotOp lo interrogarono, e che Valerio Morucci gli puntò una pistola alla tempia.
E Manlio Grillo?
Grillo, al contrario di Clavo, si dimostrò arrogante. Procurò parecchi problemi anche ai compagni svizzeri perché si comportava in maniera eccessiva, quasi richiamando l'attenzione su di sé, quasi non si rendesse conto di essere latitante. Quando me lo trovai di fronte, per passare il Generoso, era vestito in giacca e cravatta! Assurdo.

Bellosi, insieme con le persone, dal confine passavano anche le armi. Come funzionava?
Il discorso delle armi è diverso: è legato alla situazione di mercato in Svizzera. Fino al 1973 c'era un posto, una grande armeria di Vaduz – mi ricordo il gigantesco cartello con su scritto Waffen und Munitionen – in cui, con un semplice documento di identità, si poteva comperare un'arma corta, una pistola. Allora: avendo noi due o tre documenti falsi ciascuno, entravamo in questa armeria e comperavamo una pistola; poi uscivamo, la depositavamo in macchina, entravamo di nuovo e ne acquistavamo un'altra. Ai proprietari dell'armeria interessava solo registrare dei nomi, non gli interessava il fatto che ci eravamo presentati cinque minuti prima con un'altra identità. Alla fine loro si ritrovavano con un mucchio di soldi e noi armati fino ai denti. Tenga conto che avevamo contatti con alcuni carrozzieri di confine bravissimi, gente in grado di "sistemare" l'auto a prova di guardie di confine bulgare! Una volta sborsai di più per il lavoro di un carrozziere che per l'acquisto della macchina. Ma ne valse davvero la pena.
E in Svizzera?
Ecco. In Svizzera non si potevano acquistare armi corte: per rifornirci di queste, oltre ai viaggi a Vaduz, facevamo capo alla malavita organizzata oppure rapinavamo armerie in Italia. In Svizzera però, sempre con un semplice documento di identità, si potevano comperare armi lunghe, quindi fucili. E dunque ci rifornivamo lì. In Ticino, poi, avevamo una base: lasciavamo lì i quantitativi di armi, che poi piano piano portavamo in Italia.
Lei in Svizzera non venne mai scoperto. C'erano controlli, vi sentivate a rischio?
Le rispondo con un episodio avvenuto alla stazione dei treni di Lugano. Io tornavo da Zurigo con una valigia piena di armi. Di solito mi organizzavo così: arrivavo da Milano in auto, posteggiavo nei pressi della stazione di Lugano, e poi partivo in treno verso Zurigo. Era la soluzione più sicura in occasione delle trasferte in Svizzera per l'acquisto di fucili. Beh, quella sera tornando da Zurigo depositai la valigia piena di armi nei cassetti delle Ffs; giusto il tempo di avvicinare l'auto all'ingresso della stazione. Dopodiché andai a riprendere la mia valigia, ma proprio in quell'istante arrivarono due agenti della polizia ticinese che mi fermarono e mi chiesero di seguirli. Raggelai: riuscii a convincerli che dovevo prima raggiungere l'auto per prendere i documenti, e con questo escamotage riuscii a lasciare la valigia in macchina. Poi andammo nel posto di polizia della stazione. Cominciarono a chiedermi perché ero lì, cosa facevo eccetera. Io dissi che aspettavo una donna; loro fecero qualche battuta in dialetto, mi posero qualche altra domanda; ma io intanto continuavo a non capire perché mi avessero fermato. Finché uno dei due mi disse: «Va bene, può andare, ma si ricordi di non posteggiare più nei posti riservati alla polizia». Insomma – e adesso Bellosi ride – nella fretta di riprendere la valigia e nell'oscurità di quella sera, non mi ero reso conto che avevo lasciato l'auto proprio sulle linee gialle della polizia! Rischiai grosso, quella volta.

Francesco Bellosi, mentre ci incamminiamo su verso il Sasso Cordone, con San Fedele da una parte e Muggio e Cabbio dall'altra, le voglio chiedere un'ultima cosa. La generazione con cui ha condiviso i sentieri e le lotte, è una generazione di sconfitti. Cosa le è rimasto di quell'esperienza?
Io credo questo. Credo che una volta fatti i conti con i propri errori, con le proprie scelte, con la fine di quel sogno, ci può e ci deve essere la possibilità di ricominciare. A partire però da una considerazione: c'è un passaggio di Freud – mi pare sia nel "Disagio della civiltà" – che dice così: «L'uomo sconfitto è molto più ricco dell'uomo vincitore».
Più ricco di cosa?
Forse di capacità di vedere il mondo. Certamente la stagione di un uomo – di un uomo inteso come specie umana – è una soltanto: noi abbiamo vissuto quella stagione e da allora noi siamo dei sopravvissuti. Questo è il lato più amaro, più difficile… Però va bene così. Non è che si può fare molto altro.

Pubblicato il 

07.07.06

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