Sudan, la pace da costruire

Se l'opinione pubblica mondiale guarda con occhio distratto al dramma del Darfur, il Sudan meridionale è ormai quasi dimenticato. Eppure il conflitto armato che ha devastato la regione tra il 1983 e il 2005 è stato uno fra i più cruenti dopo la seconda guerra mondiale. La pace firmata due anni fa dal governo di Khartum e dai ribelli dell'Esercito di liberazione del popolo sudanese ha aperto la strada alla ricostruzione, ma il compito è enorme e molte incognite gravano sul futuro della regione.

L'ultimo posto di frontiera keniano, a Lokichokio, è una baracca di legno e lamiera aperta a tutti i venti. Le nostre jeep si fermano, per far salire una scorta armata. È una regola imposta dalle Nazioni Unite, per attraversare la terra di nessuno che ci separa dal confine sudanese. «Ma non c'è pericolo», rassicura Abduba Ido, project manager della Caritas Svizzera nel Sudan meridionale. Abduba è nato in Kenya in una famiglia di pastori, ha studiato, poi ha lavorato in Somalia. È uno dei tanti africani impegnati nell'aiuto allo sviluppo. Una cosa che si dimentica spesso, quando alle nostre latitudini si parla dell'Africa.
Il confine sudanese appare dopo una quarantina di minuti, un cancello azzurro nella savana. Ci sediamo all'ombra di un albero, nell'attesa di sbrigare le formalità. Un cartello dipinto a mano pubblicizza la vendita di whisky e vodka. La nostra destinazione è Torit, capoluogo dello stato di East Equatoria, sede del governo regionale e della diocesi cattolica. Lungo la strada, fra i cespugli e i termitai, si scorgono di tanto in tanto greggi di capre sorvegliate da giovani uomini armati di kalashnikov. In alcuni tratti la via si fa più stretta, gli autisti rallentano. «Vedete quei sassi colorati? Lì ci sono delle mine», avverte Abduba.
La guerra civile tra le forze armate del governo di Khartum e l'Esercito di liberazione del popolo sudanese (Spla) ha fatto quasi due milioni di morti sull'arco di 21 anni. Quattro milioni di persone sono state costrette ad abbandonare le loro case. La pace, firmata nel gennaio del 2005, ha permesso di avviare la ricostruzione. Ma nel Sudan meridionale manca quasi tutto: acqua, servizi igienici, strade, ospedali, scuole. «Più che ricostruire, stiamo costruendo dal nulla», osserva Francis Ben Ataba, ministro regionale dell'educazione, che incontriamo a Torit. Il suo collega Dario Borok, ministro delle infrastrutture, ha l'aria abbattuta quando parla dell'approvvigionamento idrico della città, che conta alcune decine di migliaia di abitanti e sta crescendo rapidamente: «Abbiamo una sola pompa, per pescare l'acqua dal fiume e immetterla nella rete idrica. Tempo fa si è rotta e la popolazione è rimasta senz'acqua per settimane». Alla domanda se il governo del Sudan meridionale, installato a Juba e controllato dallo Spla, non investa troppo nell'esercito e troppo poco nei servizi alla popolazione il ministro Borok preferisce però non rispondere. Di fatto, gli accordi di pace hanno dato al Sudan meridionale un'ampia autonomia. La metà dei proventi del petrolio sudanese – l'80 per cento dei giacimenti si trova al sud – è attribuita al governo di Juba, anche se l'estrazione è controllata dal governo di Khartum, che ha quindi molte possibilità di limitare il flusso di risorse verso il Sudan meridionale. Con i soldi del petrolio Juba finanzia le sue forze armate. «L'esercito è al primo posto nel budget dello Stato, seguito dall'educazione», dice il ministro Ataba.
Durante la guerra, molti servizi essenziali erano forniti dalla chiesa cattolica. E continuano ad esserlo. «I servizi pubblici non si sono ancora sviluppati come pensavamo», afferma Akio Johnson, vescovo designato di Torit. «La gente sta aspettando, ma il governo è ancora in via di assestamento».
La prossima tappa è Isoke, un villaggio fra le montagne. Lungo la strada superiamo una tribù che si sta recando ad un ballo. Le donne vestono gonnelline corte che fanno volteggiare al nostro passaggio, gli uomini portano armi a tracolla. Nella notte ci saranno due feriti d'arma da fuoco, due uomini che hanno litigato per una donna.
Nel villaggio ci accolgono suor Pasquina e suor Florence. La prima è responsabile delle scuole, la seconda dirige la clinica locale. Non ci sono medici, solo personale paramedico. I casi gravi devono essere trasportati a valle. La strada è stretta e piena di buche, quasi impraticabile quando piove. «Capita che il paziente muoia durante il viaggio», dice suor Florence. A Isoke la Caritas Svizzera sostiene vari progetti iniziati dalla diocesi di Torit e dall'associazione Lovadi, un gruppo di giovani tornati nella loro comunità dopo aver studiato in Uganda. Uno dei progetti più importanti è il condotto che capta l'acqua del fiume sopra gli insediamenti e rifornisce tutto il villaggio. «È un'acqua di ottima qualità e abbondante», sottolinea Benjamin Wekesa, ingegnere keniano. Anche suo fratello lavorava nel Sudan meridionale. È scomparso sei mesi fa, forse vittima di uno dei gruppi armati che cercano di destabilizzare la regione, come la Lord's Resistance Army, che opera a cavallo della frontiera tra Sudan e Uganda. La sera discutiamo con i nostri ospiti. Il discorso cade presto sugli accordi di pace, sul referendum che dovrà decidere entro il 2011 l'indipendenza del sud. «Per me c'è solo una soluzione, ognuno per la sua strada. Con gli arabi di Khartum non è possibile trovare un accordo», trancia padre Anthony, il parroco dell'enorme chiesa in mattoni rossi alle nostre spalle. La sua è l'opinione della maggioranza dei sud-sudanesi. La diffidenza del sud, cristiano e animista, verso il governo arabo e musulmano del nord è radicata in decenni di guerra. Ma Khartum accetterà di buon grado la perdita di buona parte delle riserve petrolifere del paese? Proviamo a parlare della necessità della riconciliazione, della fiducia che deve stare alla base di un processo di pace. «La gente qui ha vissuto la repressione, la schiavitù. Queste esperienze non si possono cancellare», interviene suor Pasquina. Durante la guerra 72 bombe lanciate dall'aviazione sudanese hanno cercato di distruggere la scuola e la clinica di Isoke.
Ci aspetta ancora una visita a Kapoeta, sulla strada di ritorno verso il Kenya. Le vie della cittadina sono circondate da macerie, gruppi di reclute marciano seguiti da donne e bambini. Dalla finestra dell'ufficio dove il commissario locale ci dà il benvenuto si scorgono decine di mutilati con le stampelle. L'unico ospedale dell'area è situato in un edificio bombardato e ricostruito alla bell'e meglio. «Bisogna spiegare alla comunità internazionale che se il processo di pace non funziona nel Sudan meridionale, sarà impossibile arrivare ad una pace credibile nel Darfur» ci aveva avvertiti prima di partire Paride Taban, ex vescovo di Torit e figura di spicco della società sud-sudanese. «E perché la pace regga, ci vuole lo sviluppo».



* di ritorno dal Sudan meridionale

Pubblicato il

16.02.2007 04:30
Andrea Tognina