Quale giustizia per le vittime dell’Eternit? Dopo oltre quindici anni di processi, centinaia di udienze, ricorsi, rinvii, condanne e annullamenti, giovedì 17 aprile i giudici della Corte d’Assise d’Appello di Torino daranno una risposta, non definitiva ma certamente spartiacque, a questo interrogativo che da decenni accompagna e angoscia la comunità di Casale Monferrato, la città martire avvelenata e uccisa dall’amianto disperso negli ambienti di lavoro e di vita da quella “fabbrica della morte”. In questa giornata verrà infatti pronunciata la sentenza d’appello del filone più importante del processo Eternit bis a carico del miliardario svizzero Stephan Schmidheiny, che come massimo dirigente della multinazionale del cemento-amianto, tra la metà degli anni Settanta e il 1986 controllava gli stabilimenti italiani. Dopo la condanna in primo grado nel giugno 2023 della Corte d’Assise di Novara a 12 anni di reclusione per l’omicidio colposo plurimo aggravato di una parte delle 392 vittime al centro del processo (ex lavoratori e semplici cittadini morti di mesotelioma pleurico, il tipico cancro indotto dall’amianto), per Schmidheiny, e di riflesso per i familiari delle vittime che invocano giustizia, si aprono fondamentalmente tre possibili scenari: una sostanziale conferma del giudizio di primo grado, una condanna per omicidio intenzionale come pretende la pubblica accusa chiedendo la pena dell’ergastolo, oppure l’assoluzione piena se prevalesse la tesi della difesa secondo cui il “solo elemento a carico” dell’imputato sarebbe “una tragedia in cerca di un colpevole”.
Per decidere sulle richieste dei Pubblici ministeri e delle parti civili da un lato e su quelle del collegio di difesa dall’altro (entrambi hanno impugnato la sentenza di primo grado), la Corte presieduta dalla giudice Cristina Domaneschi è chiamata a valutare una moltitudine di aspetti, ma le questioni principali sono essenzialmente quattro. Innanzitutto la posizione di Schmidheiny per rapporto allo stabilimento: fino a che punto, come alto dirigente di una multinazionale, può essere ritenuto responsabile per quanto accadeva nella fabbrica di Casale? C’è poi la grande questione dell’aspetto soggettivo, determinante per definire il tipo e il grado di colpa: l’imputato era consapevole che l’amianto provoca il mesotelioma e che uccide sia dentro la fabbrica sia fuori? Sapeva delle condizioni di estrema polverosità in cui versava lo stabilimento e della grave situazione di inquinamento ambientale? E cosa ha fatto per porvi rimedio? Altro aspetto fondamentale è poi quello della certezza delle diagnosi: quelle 392 persone al centro del processo sono proprio morte di mesotelioma (e dunque a causa dell’amianto) o magari di un altro tipo di tumore? E infine, ma non da ultimo, i giudici dovranno stabilire se vi è nesso di causalità tra ciascuna di quelle morti e la condotta di Schmidheiny nel decennio 1976-1986: può essere chiamato a rispondere per i decessi di lavoratori e cittadini che avevano per esempio subito un’esposizione all’amianto anche prima della sua gestione oppure no? Tutte questioni che non a caso hanno fatto da fil rouge alle udienze di questo processo d’appello e sono state al centro del confronto tra le parti. Alla vigilia dell’attesa sentenza proviamo qui a riassumere gli aspetti più importanti trattati nelle ultime fasi di questo processo d’Appello. La posizione di garanzia Mentre i rappresentanti dell’accusa non hanno dubbi sul fatto che Stephan Schmidheiny fosse l’effettivo responsabile dell’Eternit di Casale (che aveva sì un direttore ma che operava seguendo le direttive che venivano dalla Svizzera e dallo stesso Schmidheiny, con cui intratteneva peraltro un intenso scambio epistolare) e nonostante la titolarità della posizione di garanzia in capo all’imputato sia già stata acclarata anche dalla Corte di Cassazione (nel filone parallelo dell’Eternit bis riguardante lo stabilimento di Cavagnolo), i difensori insistono nel sostenere che vi fosse “grande distanza” tra Schmidheiny e la fabbrica di Casale. Fabbrica che era solo “uno dei 5 stabilimenti operanti in Italia” e che il gruppo a cui era a capo Schmidheiny “controllava 60 stabilimenti nel mondo solo del settore dell’amianto ed era composto di oltre 1000 società”, ha affermato l’avvocato Astolfo Di Amato. “Di fronte a questa dimensione non ci può essere oggettiva autentica responsabilità” da parte dell’imputato per quanto successo nella fabbrica di Casale, ha aggiunto. E, riferendosi alle gravi carenze nella manutenzione degli impianti (che emergono dalle carte e dalle testimonianze), si è chiesto Di Amato: “In un gruppo con 60 stabilimenti è forse il capo del gruppo che deve occuparsi della manutenzione?”.
La consapevolezza Altra questione centrale: Schmidheiny quanto sapeva della cancerogenicità dell’amianto, visti gli studi scientifici che già negli anni Cinquanta e Sessanta lo provavano? La Procura non ha dubbi: “Faceva parte del gotha mondiale dell’amianto e conosceva bene tutti i risultati degli studi scientifici. Aveva consapevolezza piena”. “Sapeva tutto. È lui stesso a dirlo”, ha spiegato la sostituta Procuratore generale presso la Corte d’Appello di Torino Sara Panelli, ricordando le sue stesse parole (messe a verbale) pronunciate nel 1976 in occasione di un convegno a Neuss (in Germania), in cui riunì 35 alti dirigenti del gruppo per informarli sul pericolo dell’amianto per la salute, (che ‘può far male solo se si abusa’) e per renderli consapevoli che ‘l’alternativa delle zero fibre respirabili nell’aria produrrebbe la chiusura delle fabbriche e tanta disoccupazione’. Li istruì dunque su come presentare il problema ‘in maniera adeguata all’interno degli stabilimenti’. ‘È decisamente importante che non si cada in forme di panico. Questi giorni di convegno sono stati determinanti per i direttori tecnici, i quali sono rimasti scioccati. Non deve succedere la stessa cosa con i lavoratori’, disse Schmidheiny in quell’occasione, impartendo anche un ordine preciso a tutti i dirigenti Eternit nel mondo: ‘Massima protezione della salute con il minimo dei mezzi economici’. “Cercare di ottenere il miglior risultato in modo razionale è un’ovvietà per chi fa impresa. Dove sta lo scandalo?”, controbatte l’avvocato Di Amato, accusando i pubblici ministeri di strumentalizzare le parole di Schmidheiny pronunciate a Neuss e fornendo un’altra interpretazione di quell’evento. “Schmidheiny non ha nascosto niente. Anzi, si è occupato del tema della salute. Il suo messaggio fu in realtà questo: tenuto conto dei pericoli dell’amianto, dobbiamo metterci in regola o non possiamo andare avanti. Ha dunque dato direttive per attuare iniziative di prevenzione e sottolineato l’importanza di un cambiamento di mentalità tra gli alti dirigenti, affinché la tutela della salute e dell’ambiente siano considerati una cosa ovvia. Perché questo non viene considerato dalla Procura e anche dalla sentenza di Novara?”, ha sostenuto Di Amato. La prova di questo “cambio di mentalità”, secondo la difesa, sarebbe l’istituzione sempre a Neuss di un laboratorio (denominato “Asbest Institut”) diretto dallo scienziato (per la Procura al soldo dell’industria) Klaus Robock, che impartiva indicazioni tecnico-scientifiche e che istruiva gli addetti alle misurazioni delle polveri nello stabilimento di Casale del neo-istituito Servizio di igiene sul lavoro (SIL). SIL che secondo l’accusa forniva dati farlocchi basati su misurazioni approssimative fatte nei punti della fabbrica con meno concentrazione di polveri. “Robock era una figura di spicco a livello internazionale e il SIL era una struttura all’avanguardia e i suoi addetti non erano spacciatori di numeri ma persone che per fare i rilievi si esponevano all’amianto”, ribatte la difesa di Schmidheiny. “Se avesse avuto intenzione di nascondere i problemi, perché avrebbe dovuto convocare la riunione a Neuss?”, ha chiesto Di Amato. Secondo i magistrati dell’accusa è invece chiaro che Schmidheiny “decise di resistere a ogni costo”. “Perché era troppo redditizio e le aziende avevano bisogno di tempo per pianificare l’abbandono del pericoloso materiale”, ha spiegato Sara Panelli. Si ricorse dunque “alla propaganda sulla ‘lavorazione in sicurezza’ dell’amianto, anche se già si sa che nessun uso controllato può mettere al riparo”. Una lettura questa peraltro condivisa anche dai giudici di primo grado, come si legge nelle motivazioni della sentenza di Novara: Schmidheiny era anche a conoscenza della “crescente attenzione collettiva (non solo a livello medico-scientifico, ma anche sindacale, associativo, governativo e delle comunità locali)”, in particolare dell’“assidua opera di rivendicazione portata avanti dalle rappresentanze sindacali locali per denunciare le gravi carenze igienico-ambientali dello stabilimento Eternit di Casale Monferrato e richiedere interventi consequenziali”. E la sua risposta fu quella di approntare una “linea strategica di contrasto alle pressioni, … in massima difesa del materiale, di cui andava necessariamente affermato l’utilizzo sicuro ad ogni costo”, in particolare con un manuale, denominato AULS 76 e redatto pochi mesi dopo il Convegno di Neuss. Una sorta di guida operativa per aiutare i dirigenti locali a rispondere alle possibili contestazioni contro l’amianto da parte di operai, sindacalisti, giornalisti, vicini di stabilimento e clienti, con l’intento di far credere che la produzione e il commercio di manufatti in amianto può continuare senza esporre a serio rischio l’integrità fisica delle persone. Solo quando ci si rende conto che l’amianto “non è più conveniente dal punto di vista dei profitti, si chiude, si lascia fallire la fabbrica”, ha dal canto suo spiegato nel dibattimento d’Appello Sara Panelli. Un fallimento datato 4 giugno 1986, ma che era già stato deciso da tempo: “Nel 1983 a Zurigo, complice un evento allarmante per il gotha mondiale dell’amianto (in cui la famiglia Schmidheiny aveva un ruolo di primissimo piano): la notizia che negli Stati Uniti il colosso Johns-Manville era stato sommerso da 16.500 cause legali con richiesta di risarcimento per malattie asbesto-correlate. Schmidheiny temeva un rischio analogo”, ha affermato Panelli. Ma per la difesa fu semplicemente una decisione logica presa da “un socio” della società, quale sarebbe stato Schmidheiny: “Se, come soci di una società con sede in Svizzera che continua a perdere soldi, qui a Torino decidiamo di non investire più e dunque di non ricapitalizzare la società, è tipico di un socio, non di un gestore. Investire non è uguale a gestire”, ha affermato nel corso dell’ultima udienza l’avvocato Di Amato per ribadire ancora una volta la “grande distanza” tra il suo assistito e la Eternit di Casale. Ultima parola alla difesa Di Amato si è soffermato anche sulla questione delle conoscenze scientifiche dell’epoca: “La Procura generale usa indizi, presunzioni e mere supposizioni per affermare che Schmidheiny sapeva tutto e più di tutti. Ma negli anni ’70 e ’80 era opinione della scienza che il mesotelioma fosse conseguenza di un’esposizione molto più massiccia di quelle che provocano l’asbestosi. Tant’è che un organismo come l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) nel 1981 redigeva un rapporto sulla possibilità di un uso dell’amianto in sicurezza. L’ILO era forse d’accordo con la lobby dell’amianto per dare informazioni inesatte? E poi, l’Italia mise al bando l’amianto nel 1992 ma il consenso scientifico sul fatto che anche una minima esposizione all’amianto può provocare il mesotelioma si raggiunse solo nel 1997. L’accusa vuole insomma anticipare di 20 anni la conoscenza”. È quindi tornato sulla consapevolezza di Schmidheiny: “Stephan all’inizio degli anni Settanta fu mandato dal padre Max a lavorare in un suo stabilimento brasiliano, dove stava in mezzo agli operai. Sarebbe illogico e irrazionale se avesse saputo tutto”, ha argomentato Di Amato prima di (ri)sfoderare un “classico” del repertorio della difesa in tutti i processi dal 2009 a oggi: quello della presunta scarsa credibilità dei tanti testimoni (molti dei quali nel frattempo scomparsi) che sono venuti nelle aule dei tribunali a raccontare delle condizioni di lavoro in fabbrica, della polverosità, dell’inquinamento ambientale eccetera: “La memoria è anche creativa, influenzata dal tempo trascorso. Il teste non racconta il falso, ma racconta il suo ricordo, che può non corrispondere alla realtà”, ha sostenuto Di Amato suscitando anche un certo disappunto tra i familiari delle vittime presenti in aula, che la “realtà” della tragedia di Casale invece ben conoscono. A carico di Schmidheiny c’è “solo una tragedia in cerca di un colpevole” e noi siamo qui a “combattere contro la presunzione di colpevolezza in un processo che si celebra a 50 anni di distanza dai fatti”, ha concluso l’avvocato Di Amato. Giovedì mattina 17 aprile al Palazzo di giustizia di Torino si terrà l’ultima udienza in cui la difesa concluderà i suoi interventi di replica, poi la Corte, composta dalla presidente Cristina Domaneschi affiancata da Eleonora Gallino e dai giudici popolari, si ritirerà in Camera di consiglio per emettere il verdetto. La sentenza dovrebbe giungere nel tardo pomeriggio. |