Storie kafkiane

«Voglio un avvocato. Mostratemi il mandato di perquisizione». Al Bader Al-Hazmi non si aspettava certo che l’Fbi bussasse alla sua porta sospettandolo di essere in qualche modo coinvolto con gli attacchi alle torri gemelle di New York o al Pentagono. A rendere sospetto questo giovane medico saudita che da anni vive con moglie e tre figli a San Antonio nel Texas era proprio quel banale cognome Al-Hazmi, lo stesso di due dirottatori che si trovavano a bordo dell’aereo finito contro il Pentagono. Da quel momento per lui sono cominciati 13 lunghi giorni di detenzione. Un’esperienza kafkiana. La sua non è una storia speciale, anzi è molto simile a quella vissuta da centinaia di persone di origine araba o mediorientale che, per un motivo o per un altro, sono finite in una lista nera e quindi in carcere col sospetto di essere coinvolti nei fatti dell’11 di settembre. Le storie stanno venendo adesso a galla a mano a mano che queste persone sono rilasciate, perché accuse e sospetti si stanno rivelando infondati. Anche gli avvocati denunciano con sempre più forza quanto sta avvenendo dietro le sbarre. L’emblematica storia del giovane radiologo saudita (è in America con una borsa di studio) è finita sulle pagine del Magazine domenicale del «New York Times». Si viene così a sapere che nei giorni successivi all’arresto il giovane è stato trasferito da un carcere all’altro, da un capo all’altro del paese senza sapere perché. Alla fine si è ritrovato al Metropolitan Correction Center di New York, dove sono finiti molti altre persone sospette. La sua situazione ha cominciato a cambiare quando il governo saudita gli ha messo a disposizione un importante avvocato di Manhattan, che si è dato subito da fare ottenendo l’autorizzazione ad incontrare il suo assistito. L’incontro è avvenuto dieci giorni dopo l’arresto. Due giorni dopo c’è stato l’interrogatorio da parte di due agenti dell’Fbi. Al-Hazmi ha così chiarito di non essere il fratello dei dirottatori e di non aver mai avuto legami con loro. Al-Hazmi è un cognome banale, come può essere quello di Rossi in Italia o di Bernasconi in Ticino. Per convincersi basta consultare un elenco telefonico saudita. In poco tempo è riuscito a sfatare ogni sospetto e il giorno dopo è stato rilasciato. Adesso è di nuovo in Texas a studiare e a prepararsi per gli imminenti esami di radiologia. Un’ondata di fermi e arresti spesso ingiustificati In questi giorni la stampa americana ha rivelato molte storie come queste. Sono oltre 700 le persone che sono state fermate in relazione agli attacchi di settembre. Si calcola che circa 140 persone siano state fermate per aver violato la legge sull’immigrazione (molto spesso si tratta di visti scaduti o irregolari). Un numero imprecisato di persone è invece stato fermato per aver commesso crimini vari (in genere sono crimini locali). Solo un piccolo numero di persone (il dato non è noto) sarebbe detenuto col sospetto di essere in qualche modo legato agli attacchi. Amnesty International ha prontamente reagito alle notizie apparse sulla stampa, chiedendo che le persone fermate possano esercitare i diritti fissati per legge. Vale a dire poter consultare un avvocato, poter ottenere la visita dei familiari e conoscere al più presto i motivi dell’arresto. Molti invece hanno vissuto giorni e giorni in cella senza sapere per quale motivo. Vari giudici negano le libertà provvisoria, processano a porte chiuse e sigillano i documenti. Chi non ha i documenti in regola rischia naturalmente l’espulsione e di restare in cella per un bel po’ di tempo. Un tempo questi problemi si risolvevano facilmente e rapidamente. I giornali hanno denunciati anche casi di maltrattamenti. In Mississippi, un giovane pachistano sarebbe stato denudato e picchiato dai compagni di cella che lo credevano un terrorista, senza che i secondini intervenissero. Al Metropolitan Correctional Center di New York un secondino avrebbe abusato di un detenuto egiziano. Sui due fatti sono state aperte inchieste. C’è chi non può mangiare perché i cibi non sono conformi alla regole religiose. A Dallas un detenuto è stato privato di materasso, coperta e orologio per impedirgli di pregare e le cose sono cambiate solo dopo l’intervento presso i responsabili della prigione del servizio immigrazione. A New York due persone sarebbero state poste in isolamento e private dell’ora d’aria. C’è chi è rimasto in carcere per nove giorni senza mai poter fare la doccia e senza ricevere neppure uno spazzolino da denti. Nella sua presa di posizione, Amnesty International denuncia tutto questo e ricorda che i detenuti stranieri devono poter contattare il personale del loro consolato per chiedere assistenza. Adesso che varie persone vengono rilasciate, si constata che questi arresti, che sembravano promettere molto, non hanno portato i frutti sperati. Le persone più sospette non parlano e le altre non hanno niente da dire. Gli inquirenti non nascondono una certa frustrazione. I risultati più interessanti finora sono giunti piuttosto dall’Europa e l’America comincia a chiedersi perché.

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26.10.2001 05:00
Anna Luisa Ferro Mäder