Storie di vite violate

Il loro destino era nelle mani del datore di lavoro, non avevano diritto a una vita famigliare e sociale, erano costretti ad alloggiare in baracche fatiscenti, e non potevano ammalarsi pena la perdita del posto. In queste condizioni hanno vissuto, anche per anni e anni, centinaia di migliaia di lavoratori stranieri in Svizzera ai tempi del cosiddetto “Statuto dello stagionale”, che tra il 1934 e il 2002 regolamentava la politica migratoria elvetica e che oggi l’Unione democratica di centro (Udc), forte dell’approvazione popolare lo scorso 9 febbraio dell’iniziativa “contro l’immigrazione di massa”, vorrebbe ripristinare. Un’ipotesi scellerata che Unia combatte con una campagna di sensibilizzazione e informazione sul significato di quella tragica esperienza.

 

Un’esperienza che merita di essere raccontata affinché da un lato questa forma di apartheid legalizzato non venga resuscitata e dall’altro si sviluppi la consapevolezza che certi rischi sono ancora presenti oggi e lo saranno anche in futuro, come è stato ricordato lo scorso 7 novembre a Berna nell’ambito di un convegno organizzato dallo stesso sindacato a margine di un’esposizione di strada che ha riprodotto l’ambiente e le condizioni di vita dei lavoratori stagionali di un tempo.


I protagonisti dei racconti più toccanti della giornata sono stati però i loro figli, i loro figli costretti a vivere l’infanzia lontano dai genitori, parcheggiati in qualche collegio o da qualche parente. Oppure come clandestini, rinchiusi in mansarde o appartamenti, spesso al buio, con la paura dentro e senza avere la possibilità di godersi un parco giochi come tutti gli altri bambini e di seguire una formazione scolastica (anche se alcuni furono accolti da istituti italiani presenti nelle città o dalle scuole clandestine che erano sorte soprattutto nella Svizzera romanda).


Tutto questo lo prevedeva la legge, una legge disumana secondo cui i lavoratori stagionali potevano restare in Svizzera nove mesi all’anno per soddisfare i bisogni della nostra economia, ma non andavano integrati e dunque non si doveva dare loro la possibilità di farsi raggiungere dalla famiglia. «Centinaia di migliaia di lavoratori – soprattutto italiani, spagnoli, portoghesi e della ex Iugoslavia – avevano due possibilità: separarsi dai loro figli oppure portarseli con sé e nasconderli», ha spiegato Marina Frigerio, psicoterapeuta e psicologa dell’età evolutiva, autrice del libro di testimonianze “Bambini proibiti” e una delle prime persone in Svizzera ad aver documentato la realtà in cui erano costretti migliaia di minori.


Ha raccontato, commossa, una donna: «Ricordo che quando uscivo in balcone ero costretta a rimanere seduta per terra perché nessuno dall’esterno mi potesse vedere. Provo una sensazione di vuoto perché mi è mancata l’adolescenza: nel periodo tra i 12 e i 16 anni mi sarebbe piaciuto avere degli amici con cui uscire, ascoltare della musica e fare festa. Ma non mi era possibile e ciò ha lasciato il segno». «Una notte si presentò alla porta di casa la polizia degli stranieri, che trattò mia mamma in malo modo, senza rispetto. Non usarono violenza fisica ma violenza verbale. Non potrò mai dimenticare quella sofferenza», ha ricordato un altro ex clandestino. «Ancora oggi – ha aggiunto un altro – non mi piace entrare in appartamenti con dei tappeti, perché sui tappeti, talvolta puzzolenti, ci stavo sempre a giocare. E non sono ricordi belli. Mi sentivo come in carcere e vivevo sempre con la paura che i genitori se ne andassero o che mi portassero da qualche parte per poi venirmi a riprendere chissà quando. Una paura che non mi passò nemmeno quando uscii dalla clandestinità». «È un’esperienza che ho vissuto tra i 4 e i 6 anni insieme con mia sorella e che ho cercato di cancellare dalla mia storia famigliare», ha riferito dal canto suo Claudio Micheloni, senatore della Repubblica italiana che oggi, ha fatto notare, le autorità elvetiche non esitano a interpellare quando si tratta di farsi dare una mano nelle difficili relazioni tra la Confederazione e il governo di Roma.


Ascoltando i racconti di queste persone si percepisce che l’esperienza vissuta ha lasciato in loro un segno indelebile, visto che ancora oggi, nonostante tutti abbiano poi avuto occasione di riscattarsi nella vita e nel lavoro, fanno molta fatica a parlare di quelle vicende che sembra vogliano quasi rimuovere. Ne abbiamo discusso con Marina Frigerio.


Come si spiega che questi traumi vissuti da bambino si trascinino così a lungo?
Tutti i traumi si trascinano se non vengono elaborati, cioè se non se ne parla se non se ne capiscono le ragioni. E la storia degli bambini clandestini e di quelli cresciuti lontani dai genitori è stata per molti anni un tabù. Tra i cittadini svizzeri a causa della consapevolezza di aver vissuto vicino a quei drammi e di non aver fatto niente. Dal punto di vista delle vittime, in una prima fase perché si trattava di garantirsi la clandestinità e successivamente perché si temevano ritorsioni e si voleva vivere la liberazione da quella condizione e dimenticare. Un meccanismo quest’ultimo comune a tutti i gruppi che subiscono gravi traumi (le vittime delle guerre per esempio). Dopo un periodo latenza, anche a distanza di anni, si manifestano però le conseguenze del trauma, sotto forma di tristezza, di depressione e talvolta anche di comportamenti violenti. Scrivendo il libro mi sono accorta che oggi questi ex clandestini hanno un gran bisogno di parlare, forse anche aiutati dal fatto di essersi ritrovati a condividere il destino di altri bambini nati o cresciuti in Svizzera cui sono stati negati dei diritti, come i figli degli Jenisch che per decenni venivano strappati alle loro famiglie per essere messi in collegio, o i cosiddetti "Verdingkinder”, bambini di famiglie povere che venivano mandati in aziende agricole e lì di fatto ridotti a schiavi.

 

Le cronache ticinesi di queste settimane riferiscono che il consigliere di stato leghista Norman Gobbi ha inviato la polizia a caccia di due bambini ecuadoriani per negare loro il diritto alla scolarizzazione, una conquista che affonda le sue radici proprio nelle battaglie sindacali e sociali contro lo statuto dello stagionale. Che effetto le fa questo ritorno al passato?
Non trovo parole per definire un politico con una responsabilità di questo livello che si accanisce contro due bambini, oltretutto violando le direttive della Conferenza svizzera dei direttori cantonali della pubblica educazione. Direttive che prevedono il diritto di ogni bambino a frequentare una scuola e che avevo tra l’altro avuto modo di menzionare tenendo nel 2013 una relazione a Chiasso nell’ambito della Giornata della memoria, al cui tavolo presidenziale sedeva proprio Norman Gobbi. Sono rimasta meravigliata leggendo le sue dichiarazioni alla stampa in cui ha affermato di non saperne nulla. È una vicenda triste e sconvolgente, segno di un brutto clima e del persistere delle violazioni dei diritti dei minori in Svizzera. Gobbi avrebbe dovuto mandare la polizia se i genitori non li avessero scolarizzati quei bambini. Loro invece hanno dimostrato di essere dei buoni genitori che cercano di gestire al meglio la loro miseria. Il comportamento di Gobbi dimostra che ci sono ancora bambini di serie A e di serie B. Non è un caso che esponenti dell’Udc siano aperti al ricongiungimento famigliare per medici e ricercatori stranieri ma non per altre categorie di lavoratori, nonostante oggi si sappia quanto male hanno provocato le separazioni forzate delle famiglie.

 

La vicenda dei lavoratori italiani in Svizzera che vivevano nascosti in un dormitorio-lager a Germignaga (ne riferiamo alle pagine 6 e 7) sembra riproporre le condizioni di vita degli stagionali costretti nelle baracche. Anche se si tratta di casi isolati e non della regola come le baracche un tempo, sembra che l’esperienza del passato abbia insegnato poco...
Non sono così sicura che queste situazioni siano casi isolati. Oggi il fenomeno è infatti molto sommerso perché questi lavoratori giungono in Svizzera come clandestini o come lavoratori in prestito e di regola nessuno sa dove e come vivono. A Berna sono stati scoperti qualche tempo fa degli operai dell’Europa dell’Est che dormivano sotto terra nel cantiere della stazione in condizioni allucinanti. Ora il caso di Germignaga, indicatore della disperazione e del bisogno estremo di quei lavoratori meridionali e del livello di criminalità che è stato raggiunto da chi li portava in Ticino e di quelli che qui li facevano lavorare.


Quali strumenti si possono immaginare per combattere questo degrado?
Oltre ad un intervento per rafforzare e garantire i diritti dei lavoratori, serve la ferma reazione della magistratura nei confronti di questi schiavisti che sfruttano le situazioni di bisogno e di disagio economico delle persone. Ciò darebbe anche un contributo sul piano culturale affinché la popolazione ticinese, invece di lasciarsi influenzare dalla propaganda della Lega che sfrutta il fenomeno dell’immigrazione e le giustificate paure dei ticinesi per interessi elettorali, capisca che non è con i lavoratori frontalieri che ce la si deve prendere ma con i criminali (ticinesi) che assumono manodopera a certe condizioni.

Pubblicato il

23.11.2014 20:24
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