Il reportage

S. ha cominciato a cucire scarpe quando aveva otto anni. «Eravamo sette figli e dovevamo mantenerci da soli, con i primi guadagni sono pure riuscita a comprarmi il motorino», racconta. Non ha mai smesso e ancora oggi, tutte le mattine, quando il tempo è bello la si può vedere al lavoro davanti al portone della sua abitazione, in un vicolo del centro storico di Buonabitacolo. Qui, in questo paesino di appena 2.600 abitanti nell’estremo sud della Campania, il mestiere di cucitrice si tramanda di madre in figlia e da queste parti è la principale attività lavorativa femminile. Nelle stradine del paese si incontrano numerose cucitrici, a volte sole, più spesso a gruppi di due o tre, ognuna con il suo sacco di calzature destinate al mercato dell’alta moda italiana.


Il meccanismo è ben oliato e non conosce oscillazioni legate alla stagione, alle festività o all’andamento del mercato. I giorni di consegna e ritiro sono il lunedì e il giovedì, quando una persona passa a prendere il sacco di plastica trasparente con le scarpe, controlla che non ci siano imperfezioni e consegna il lavoro per i giorni successivi. «Ognuna di noi sa quante scarpe è in grado di cucire e non ne chiede di più, l’importante è la precisione del lavoro e la puntualità nella consegna», spiega una cucitrice. I ritmi sono serrati, spesso si lavora anche di notte e, quando è in ritardo, quest’ultima, che abita in un basso di pochissimi metri quadrati con quattro familiari, si fa aiutare dalla figlia appena diciottenne. Per limitare l’inevitabile usura delle mani, quando è al lavoro indossa dei guanti di cuoio aperti sulle dita per poter maneggiare i fili.

 

Il prezzo del “made in Italy”
Per i curatori del dossier “Il vero costo delle nostre scarpe”, curato dal Centro nuovo modello di sviluppo e dall’associazione Fair per la campagna Change your shoes, che monitora il comportamento sociale e ambientale dei marchi delle calzature, lo sfruttamento lavorativo delle cucitrici di Buonabitacolo è il prezzo del cosiddetto “reshoring”, vale a dire il rientro della produzione dei prodotti di alta gamma in Italia dopo anni di delocalizzazioni in Estremo Oriente o nell’Est Europa. «Benché i grandi marchi stipulino contratti di fornitura con poche imprese, in realtà il numero di aziende che entra nella catena di fornitura è molto più ampio per l’abitudine dei terzisti stessi a cedere parte del loro lavoro ad aziende di livello inferiore. Fra le ragioni che contribuiscono al fenomeno, i tempi di consegna molto stretti e i prezzi molto bassi. Più si scende giù per la filiera, più i prezzi si riducono perché ogni livello tenta di guadagnare su quello successivo, trattenendo parte del prezzo pattuito col proprio committente. E quando i prezzi si fanno talmente bassi da non coprire neppure i costi vivi, allora si entra nel cono d’ombra dell’economia sommersa, popolata da imprese che cercano di risparmiare frodando i lavoratori, il fisco e il sistema previdenziale», scrivono i ricercatori della campagna, che hanno preso in esame brand come Geox, Prada e Tod’s. Mentre i primi due marchi si sarebbero dimostrati più collaborativi, l’ultimo, come pure Ferragamo, non avrebbe risposto a un questionario sul rispetto dei diritti umani e dei lavoratori nelle filiere messo a punto dai ricercatori della campagna.
Con il “reshoring”, il “made in Italy” è garantito, ma le condizioni di lavoro, nel passaggio dall’Albania o dal Bangladesh al Mezzogiorno d’Italia, non cambiano. «La mobilità dei capitali, unitamente alle strategie di outsourcing, crea l’ambiente perfetto per spingere condizioni di lavoro e salari sempre più in basso», scrivono i ricercatori. «Dal punto di vista del costo del lavoro, e dunque della convenienza a produrre, alcune aree del nostro Paese sono assimilate all’Est Europa, con un risparmio fino al 25 per cento per le aziende produttrici», spiega la curatrice del rapporto Deborah Lucchetti.
Una di queste aree “low cost” è quella di Casarano in Salento, «polo di produzione di calzature per conto terzi per i brand di lusso, tra cui Gucci, Prada, Salvatore Ferragamo e Tod’s», come ha raccontato lo scorso settembre il New York Times in un’inchiesta sull’economia sommersa delle grandi marche del settore tessile e di quello calzaturiero in Italia. La Puglia non è solo un paradiso per turisti ma anche uno dei principali poli manifatturieri del Paese, e il lavoro nero e malpagato è una realtà che stride con l’immagine da cartolina della regione. “Sii flessibile, usa i tuoi metodi, sai come farlo qui”, è il motto del cosiddetto “metodo Salentino”, uno slogan che riassume il neoliberismo in salsa mediterranea di questo pezzo di Mezzogiorno d’Italia.


Un’altra zona di produzioni a basso costo è il triangolo Buonabitacolo-Casalbuono-Montesano sulla Marcellana, nella zona meridionale del Vallo di Diano, un altopiano pianeggiante incastonato tra i monti del Cilento e quelli che separano la Campania dalla Basilicata, nel Parco nazionale più esteso d’Italia. Qui esiste un “artigianato di qualità” che, per il sindaco del paesino Giancarlo Guercio (che aderisce al movimento Italia in comune del sindaco di Parma, ex M5S, Federico Pizzarotti), «ha consentito di resistere alla crisi economica». Si tratta, a suo dire, di un vero e proprio “brand” locale al servizio delle grandi case di moda. Quello che il primo cittadino non dice è che tutto ciò è avvenuto al prezzo della cancellazione di ogni diritto e tutela per i lavoratori, con salari spesso al di sotto di qualsiasi soglia minima di sussistenza.

 

Bassi salari, alti guadagni
Chi ha fatto le spese del cosiddetto “reshoring” sono le donne che incontro nelle strade di Buonabitacolo. S. mi mostra un mocassino nero che ha in evidenza il marchio Ferragamo. Finirà in vendita a non meno di 500 euro, ma lei intascherà appena un euro e venti centesimi da un padroncino locale che ha preso in subfornitura il lavoro di cucitura. In contanti, senza contratto né contributi, ma trattata meglio di altre cucitrici dello stesso vicolo, che mostrano calzature sempre di alta gamma con un generico “made in Italy” inciso sotto la suola e ricevono invece appena cinquanta centesimi per ogni paio di scarpe messe a punto. Tutte sanno per quali griffe dell’alta moda lavorano, ma in questa fase della lavorazione non è possibile individuare il marchio. Spiegano che sarà aggiunto da qualcun altro solo dopo che loro le avranno riconsegnate. Si tratta di scarpe che costeranno anche più di duemila euro al paio.


Per le cucitrici è preferibile lavorare al nero piuttosto che «essere regolarizzate e ricevere una busta paga gonfiata», fino a 1.500 euro dichiarati dal datore di lavoro a fronte di una paga reale che oscilla tra i 400 e i 500 euro al mese, lo stesso livello salariale di alcune zone dell’Est Europa, appunto. Dichiarando uno stipendio più alto di quello che ricevono, perderebbero infatti pure la possibilità di accedere alle misure di welfare statale per i più poveri. Se invece denunciano lo sfruttamento, rischiano di non lavorare più, per questo accettano di parlare solo a condizione che non venga pubblicato il loro nome. In dodici ore filate di lavoro, S. riesce a cucire anche venticinque paia di scarpe, al ritmo di una ogni mezz’ora. In qualche caso, quando il disegno è più complesso, non va oltre le dieci.
Interpellata, la casa di moda fiorentina ha confermato che si tratta di una subfornitura e si è giustificata sostenendo di avere un codice etico particolarmente rigoroso in materia di sfruttamento del lavoro, ma di riuscire a controllare solo i fornitori diretti. Dovrebbero essere questi ultimi a verificare l’attività dei subfornitori. Per questo, un portavoce ha spiegato che «a seguito della segnalazione, Salvatore Ferragamo si è subito attivata per le opportune verifiche con gli strumenti a sua disposizione per avere maggiori informazioni in merito. L’azienda è intervenuta con il fornitore diretto e ha chiesto di prendere immediati provvedimenti con il subfornitore affinché venisse garantito il rispetto degli impegni presi in materia di filiera etica, di tutela dei lavoratori, e che fosse posto tempestivo rimedio a eventuali inadempienze». Inoltre, Ferragamo ha auspicato infine che «la salvaguardia di maestranze artigiane, legate alla realizzazione di lavorazioni d’eccellenza del comparto calzaturiero, patrimonio intangibile del made in Italy, trovi sempre una maggiore tutela».


Seguendo le tracce delle scarpe cucite e riconsegnate dalle lavoratrici di Buonabitacolo, finisco davanti a un capannone senza insegne, in fondo a una strada sterrata appena fuori dal paese, tra lo svincolo dell’autostrada Salerno-Reggio Calabria e l’imbocco della superstrada che porta verso le rinomate località costiere del Cilento. All’interno sono accatastate decine di sacchi di plastica trasparente colmi di mocassini. L’unica persona che incontro all’interno conferma che sono pronti per essere spediti alla casa madre, a Firenze. La tappa successiva saranno le vetrine delle boutique del lusso di tutta Europa.

Pubblicato il 

17.04.19
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