«Gli italiani si presentavano in banca con sacchi di iuta pieni di soldi. Tutti i giorni ne arrivavano di nuovi». Siamo nel 1963 e il nostro interlocutore, Guido*, è agli esordi della sua carriera professionale nel settore bancario a Lugano. Da allora ne ha fatta di strada. Da oltre trenta anni è capo del personale nel settore bancario. In sua compagnia tentiamo di ripercorrere l'evoluzione del mondo bancario di quella che oggi è diventata la terza piazza finanziaria del paese: Lugano.

«Sono uno degli ultimi moicani» scherza Guido. Ed è vero. Fa parte di quella generazione che ha iniziato a lavorare in banca quando di piazza finanziaria non se ne parlava ancora. Nell'Italia di allora, c'era il pericolo rosso. Il Partito comunista italiano, la più potente organizzazione politica comunista nell'Europa divisa dalla guerra fredda, rappresentava un reale contropotere. Ed era lo spauracchio della borghesia italiana che, intimorita, esportava in massa i capitali nei forzieri svizzeri. In quegli anni la legislazione sull'esportazione dei capitali era quasi inesistente.
«A quei tempi a Lugano c'erano pochissime banche. Si potevano contare sulle dita della mano». Siamo dunque ben lontani dai 73 istituti bancari oggi presenti nel solo comune di Lugano. «Il sistema bancario ticinese, e luganese in particolare, era tutto da svilupparsi. Era tutto un fiorire di banche locali o di filiali di altre banche svizzere. Tra gli anni 60 e 70, vi fu un vero boom del settore». Nei confronti della clientela italiana, Lugano aveva due importanti carte da giocare: era in Svizzera e si parlava italiano. «Ma gli italiani si sentivano più rassicurati se il direttore della banca aveva un cognome tedesco. Come dire: faceva più "svizzero" e i clienti italiani avevano fiducia» spiega Guido.
In un primo tempo, i direttori erano tutti svizzeri tedeschi, ma poi, vista la crescita esponenziale del numero di istituti, furono costretti a cercare del personale locale tra gli "indigeni". «Non era raro, anzi capitava sovente, che i direttori di banca ticinesi avessero un cognome svizzero tedesco. In realtà però erano ticinesi "doc", da generazioni. Di tedesco gli era rimasto solo il cognome» specifica Guido.
Ma la sete di personale del nuovo settore riguardava anche gli impiegati di rango inferiore. Le banche iniziarono dunque ad attingere a piene mani dal serbatoio di manodopera indigena. Ma il Ticino di allora era prevalentemente povero. Negli anni sessanta i luganesi erano in gran maggioranza artigiani, contadini o impiegati nella nascente industria alberghiera. L'ambizione professionale in quegli anni era essere assunto alle regie federali, ossia dalle poste o dalle ferrovie. Un'aspirazione ben presto sostituita dal sogno di diventare un impiegato di banca.
L'istituto bancario era considerato un posto di lavoro privilegiato, dove si andava a lavorare eleganti, da gran signori. E la paga, fatto non trascurabile, era molto buona se paragonata ad altri mestieri. «Per certe attività in banca non era necessario possedere una particolare formazione. Fu così che in quegli anni a Lugano in molti passarono dalla professione di parrucchiere o cameriere a quella di bancario, svolgendo le attività più semplici, dove era necessaria una certa manualità». Il contraccolpo di questo esodo professionale fu che a Lugano sparirono tutta una serie di addetti ad un certo tipo di mestieri, generando penuria di manodopera locale. «Fu dunque necessario sostituirli con gli immigrati» spiega Guido. Così, oltre ai capitali, dall'Italia iniziarono ad arrivare anche le genti.
Col tempo una certa formazione bancaria alla massa dei nuovi assunti si impose. Anche perché il lavoro in banca diventava vieppiù complesso, e la legislazione sull'esportazione dei capitali si fece sempre più severa e restrittiva. Il sistema bancario ticinese scelse dunque d'investire tempo e denaro nella formazione del suo personale. Oltre a migliorare le conoscenze dei suoi dipendenti puntando sulla formazione interna, le banche puntarono sulla formazione dei giovani attraverso l'apprendistato. «Nella prima metà degli anni 70, le banche assumevano oltre 300 apprendisti ogni anno. Oggi invece, sia la formazione interna che l'apprendistato, sono diventati sempre più merci rare» constata Guido.
Ad inizio anni 80, arrivò la rivoluzione informatica. «Fu un colpo mortale per molti dipendenti. Gran parte dei lavori manuali e ripetitivi furono sostituiti dai computer, più veloci e precisi. Molte funzioni all'interno della banca furono quindi soppresse, con una perdita secca di diversi posti di lavoro. Inoltre, per molte persone non fu facile adattarsi all'informatica e familiarizzare con i computer. Gran parte dei dipendenti assunti per fronteggiare il boom della nascita del settore per via della loro abilità manuale, diventarono superflui nell'organizzazione del lavoro in banca. In diversi dunque dovettero per forza cambiare lavoro» conclude Guido.


C'erano una volta i diritti

Fin dal 1918, a tutelare gli interessi dei dipendenti bancari vi è l'Associazione svizzera degli impiegati di banca. «Nei primi decenni in cui ho iniziato a lavorare, direi fino a metà anni 80, c'era una forte adesione dei dipendenti all'Asib. Era un'associazione capillare, presente in ogni banca con una figura di riferimento. Le sue assemblee o le sue attività erano ben partecipate» racconta Guido*, attivo nel settore bancario da diversi anni come capo del personale.
L'Asib, alla pari di un'organizzazione sindacale, sottoscrisse con l'associazione mantello delle banche una convenzione sulle condizioni di lavoro. «Esisteva una scaletta fissa di classi salariali, con una forbice minima e massima di stipendio a seconda delle funzioni. Venivano anche concordati gli aumenti salariali ed erano già previsti degli scatti per anzianità di servizio. Oggi, tutto questo non esiste più».
Infatti, nel sito dell'Asib odierno, alla voce scala salariale compare un solo salario minimo sotto il quale non si può scendere (48 mila franchi l'anno, l'equivalente di un salario minimo di 4 mila franchi per dodici mesi). Dopo una serie di crisi nel settore bancario, il ruolo dell'Asib s'è progressivamente affievolito fino ad arrivare a quel che è oggi. «Ogni dipendente tratta individualmente il proprio salario con l'istituto, così come gli eventuali aumenti» precisa Guido. Anche il numero di impiegati nel settore si è ridimensionato notevolmente a furia di tagli di personale: «C'è però una differenza tra le grandi banche e i medio-piccoli isituti di credito. Nel caso della nostra banca ad esempio, della quale i proprietari sono ancora le famiglie che l'hanno fondata negli anni 60, non abbiamo mai licenziato nessuno. Alcune persone non sono più state sostituite al momento del pensionamento, riducendo così il numero dei posti di lavoro. Discorso diverso invece per le grandi banche. Sempre alla ricerca di profitti in crescita esponenziale per soddisfare gli azionisti, i grandi istituti razionalizzano il personale fino all'osso, licenziando i collaboratori». A pagare il prezzo più alto «sono generalmente gli impiegati del settore amministrativo» spiega Guido. «Chi deve trovare clienti o maggiormente far fruttare i capitali a disposizione, crea valore, porta soldi detto in parole povere. Può quindi negoziare maggiormente sulle proprie condizioni salariali, mentre chi si occupa dell'amministrazione ha meno possibililità di difendersi. Va detto che sui primi però pesa il forte spirito di competizione tra colleghi e lo stress a raggiungere risultati sempre migliori». Un'altra causa del ridimensionamento del personale nelle banche sono i costi organizzativi. Le banche dette "universali", quelle che coprono l'intera gamma di prestazioni previste dagli istituti di credito, «hanno un costo strutturale importante e coprono settori non sempre reddititizi. Invece il Private banking* (per la definizione si veda il riquadro sopra, ndr.) costituisce una resa maggiore ad un costo fisso inferiore». Ed è questo il motivo per cui sempre più banche luganesi si indirizzano quasi esclusivamente verso il Private banking, abbandonando la funzione primordiale del servizio bancario del credito ai piccoli-medi imprenditori, quello che consente la crescita dell'economia locale. Ma nell'epoca della globalizzazione, la piazza finanziaria luganese si è ormai da tempo orientata verso altri lidi e servizi. Per il nostro "ultimo moicano" Guido, è ormai tempo di godersi il meritato riposo. Progetti per il futuro, gli chiediamo? «Dedicarmi alla cultura e al volontariato». È proprio vero che ne rimangono pochi così.

* nome di fantasia, la vera identità è nota alla redazione

Pubblicato il 

16.05.08

Edizione cartacea

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