Spiriti inquieti. Intervista con Bellocchio sul suo ultimo film «L'ora di religione»

Forti polemiche e critiche molto positive. Così è stato accolto in Italia «L’ora di religione», l’ultimo film (il ventesimo in una carriera iniziata nel 1965 con il dirompente ed estremista «I pugni in tasca») di Marco Bellocchio. La pellicola del regista emiliano è stata presentata in concorso al Festival di Cannes, unica scelta a rappresentare l’Italia nella competizione anche se nella selezione ufficiale è stato incluso anche «Carlo Giuliani, un ragazzo» di Francesca Comencini, mediometraggio sul giovane ucciso da un carabiniere nel corso delle proteste contro il G8 di Genova nel luglio di un anno fa. La vicenda narrata da Bellocchio è quella di un pittore (interpretato da un bravissimo Sergio Castelletto) chiamato a sostenere la causa di canonizzazione della madre, uccisa dal fratello in un raptus di follia. Tra una visita e l’altra di un emissario della Curia vaticana, l’incontro con parenti alacremente impegnati a costruire l’immagine di una santa, la crisi con la moglie e l’incontro con una misteriosa e bellissima bionda, il pittore torna ad interrogarsi sulla propria esistenza e sul proprio rapporto con la fede. Abbiamo intervistato Marco Bellocchio pochi giorni prima del Festival di Cannes. Una pellicola che ha per tema la religione è un avvenimento molto insolito in Italia. È un film fuori dalla tradizione del cinema e dell’arte italiana. Mi sembra una contraddizione per un paese con la nostra tradizione religiosa. La mia generazione è stata educata da un’organizzazione cattolica capillare e presente più di oggi, eppure la religiosità e la trascendenza sono poco sentiti. Il potere della Chiesa è stato criticato marginalmente: sotto la forma della commedia e della satira o, come Federico Fellini, all’interno del suo spirito. E, nonostante in Italia ci siano autori dichiaratamente cattolici, da noi non c’è la tradizione di cinema spirituale che esiste nel nord Europa o in Francia, penso a Bergman, a Dreyer, a Bresson, allo stesso Kieslowski. L’unico di quella statura è Ermanno Olmi. Il protagonista del suo film è un non credente che si trova all’improvviso a porsi il problema della fede. Una persona che non crede si trova dentro una situazione in cui la religione è utilizzata a fini di immagine. All’improvviso scopre che il problema religioso ha ancora spazio nella sua psiche, quando credeva che fosse chiuso. Si chiede come mai, lui un artista e quindi sulla carta più sensibile a questi aspetti, non se ne sia mai accorto. È la scoperta che il distacco dal passato non è compiuto. Una situazione esplicitata dal sorriso della madre restato come un’impronta sulle sue labbra, rappresenta il legame di sangue con la madre e la famiglia. Non scopre la religiosità, riafferma il suo non essere credente, ma entra in contatto con chi usa la canonizzazione a fini di immagine. Il sorriso della madre rappresenta quindi il non superamento del problema della fede? Direi di no, il sorriso prescinde da un significato religioso. A questo sorriso io attribuisco un valore negativo perché è ingannatorio e nasconde la realtà delle cose. Il protagonista ha un sorriso cinico e ironico che non gli piace e che gli ricorda quello della madre. Un sorriso che contrasta con quello in apparenza benevolo di una madre che nella realtà non ha saputo capire i propri figli. È una figura distruttiva e per questo la canonizzazione è ancora più incredibile. Ma non associo questa distruttività alla religione: ci sono buone madri credenti, così come ci sono madri laiche e distruttive. In qualche modo «L’ora di religione» segna un ritorno ai temi degli inizi della sua carriera, a «I pugni in tasca» o «Nel nome del padre». Come autore è come se il personaggio mi ricordasse esperienze di tanti anni fa. Lo spirito del film si collega a quello che sono io ora, radicalmente diverso che ai tempi de «I pugni in tasca». La rabbia e la determinazione de «I pugni in tasca» non ci sono più. Ora esprimo la ribellione al conformismo in modi diversi, non ci sono più la rottura o l’uccisione dei genitori. Cerco di difendere a tutti i costi un rapporto con il figlio oppure di mostrare una vitalità sentimentale che altri non hanno e che porta il protagonista ad innamorarsi lì per lì di una donna senza neppure conoscerla. Sono queste le differenze rispetto al ‘68. A proposito di ribellione, alcuni suoi colleghi come Nanni Moretti si sono resi protagonisti di iniziative molto decise contro il governo Berlusconi. Qual è la sua posizione? Credo che ognuno debba agire secondo il proprio sentimento e fare quello che gli viene naturale. Nella mia vita sono andato in piazza, moderatamente, ma penso che sia il momento di scavare più a fondo, di trovare dei temi e dei contenuti più profondi. Non dico di cancellare il passato ma non si può rivivere quello che già è stato. Per questo voglio studiare e lavorare in modo discreto. Non dimentichiamo che l’avversario, Berlusconi e Forza Italia, è molto più forte di noi come detentore delle armi dell’informazione e della promozione. Con quali aspettative si presenta a Cannes? Lo scorso anno c’era molta attenzione verso l’Italia dovuta alle elezioni politiche e al successo di Berlusconi. Questa volta la situazione si presenta diversa e saranno i francesi ad essere osservati dopo il caso Le Pen. Cannes è un festival internazionale, c’è il dibattito sugli argomenti di attualità, ma nel gioco alla fine conta di più il film, come viene accolto dalla critica e dal pubblico. C’è anche l’intorno, che crea più o meno curiosità, ma alla fine conta poco. Quanto al destino del film nelle sale italiane cambierebbe poco. È soddisfatto dell’andamento del suo film nelle sale? Sono molto soddisfatto: in 3 settimane ha incassato quanto «La Balia» in tutto il suo sfruttamento. E quello era un film sicuramente più semplice e adatto a un pubblico largo. Nelle città principali è andato bene, sono contento, in provincia influisce il fatto che non venga proiettato nelle sale parrocchiali. Non siamo più negli anni ’50 o ‘60 e non è più tempo di scandali. Non mi aspettavo ci fosse questo interesse e spero in un nuovo rilancio perché c’è una fetta di pubblico sensibile agli esiti di Cannes. Credo che lo spettatore che lo vede con animo aperto, anche se non è d’accordo, possa accorgersi che il film tocca dei nervi scoperti, come l’incontro con il trascendente, ed uscirne soddisfatto. È un film sui limiti della vita e pone interrogativi che tutti ci poniamo e che interessano tutti, ma dei quali il cinema non si occupa. E più che della paura della morte il mio film si avvicina al tema della paura di impazzire, che, come sostiene il mio amico Massimo Fagioli, è il vero timore degli uomini: perdere la ragione li terrorizza più di perdere la vita. Il mio film è certamente di parte, ma c’è un gran bisogno di film di parte in Italia. Non si sente penalizzato dal fatto che gli spazi sui giornali o nelle televisioni italiane sia dedicato a questioni frivole e lavori di basso profilo? Spesso viene data grande importanza a personaggi assurdi che con il cinema non hanno nulla a che fare. Ci si rimane male, ma dopo qualche giorno passa e l’esperienza aiuta a superare queste delusioni. Per me è più importante conservare la propria identità e difendere le cose che mi piacciono e mi piace fare anziché farmi coinvolgere in queste cose. La stessa Cannes dura pochi giorni. Quanto al futuro so che dovrò ancora lottare e convincere per poter lavorare, dovrò ancora salire e scendere le altrui scale come scriveva Dante.

Pubblicato il

17.05.2002 04:00
Nicola Falcinella