"Sono vivo per puro caso"

Pietro Vedana, 77 anni, conduttore di escavatrici, Sospirolo (Belluno), allora 37 anni: «Ricevetti quella lettera otto giorni dopo la catastrofe. Ero un conducente di escavatrici e mi chiamavano per i lavori di recupero. Sapevo che cosa mi aspettava ed ero sconvolto. Il giorno dopo la tragedia avevo riaccompagnato mia moglie in Italia. Era incinta e la vista di tutto quel dolore e di tutta quella sofferenza l’aveva terribilmente scossa. Il giorno della tragedia, quel 30 agosto, stavo lavorando ad una morena laterale del ghiacciaio di Allalin. Per puro caso non mi trovavo nella zona colpita da quella valanga mortale di ghiaccio. Lavoravo undici ore il giorno per rimuovere le masse di ghiaccio. Un collega mi precedeva a piedi e mi faceva un segnale quando trovava una salma. Allora mi fermavo e liberavamo il cadavere con il piccone e la paletta. Mentre lavoravo continuavo a guardare il ghiacciaio. Avevo una paura indescrivibile. Il ghiaccio continuava a muoversi. Si vedeva ad occhio nudo. Si formavano piccole torri di ghiaccio, che poi ricadevano su se stesse. Alcune schegge precipitavano. Alcuni giorni dopo la tragedia installarono un impianto d’allarme. Spesso effettuavano un allarme di prova e noi dovevamo abbandonare la zona di pericolo entro 45 secondi. Ancora oggi mi chiedo perché queste misure di sicurezza siano state adottate solo dopo la catastrofe. Non mi sono mai illuso sulla giustizia svizzera. 56 delle 88 vittime erano migranti italiani, 17 della mia provincia, Belluno. Sapevamo dall’inizio che non ci sarebbero state condanne. Non siamo rimasti sorpresi quando, sette anni dopo, i responsabili sono stati assolti. Al termine dei lavori di recupero me ne andai da Mattmark. Non ce la facevo più. Lì tutto mi ricordava i miei colleghi morti, il dolore e la paura. Chiesi al mio datore di lavoro di essere trasferito ad un altro cantiere. Ma già l’anno successivo presi una decisione definitiva. Dopo venti anni di vita da migrante, la costruzione dell’aeroporto di Kloten e delle dighe a Marmorea, Göschenen e Mattmark era giunto il momento di tornare per sempre da mia moglie e dalle mie figlie». Gianni Da Deppo, 72 anni, sondatore, Domegge (Belluno), allora 32 anni: «È stata una tragedia, il ghiacciaio li ha trascinati nella morte: sento ancora le parole della figlia del nostro vicino, come se la tragedia si fosse consumata ieri. Era lunedì ed erano da poco passate le cinque. Avevo finito di preparare lo zaino per il turno di notte e stavo scendendo le scale quando la bimba si gettò in lacrime tra le mie braccia. In paese aveva appena sentito che una massa di ghiaccio si era staccata dal ghiacciaio e aveva sepolto gli alloggi del cantiere. Anche suo padre era lì. Non aveva ancora finito di parlare, che già avevo fatto cadere lo zaino e mi ero precipitato verso il camioncino dell’azienda che ci doveva portare alle baracche per il cambio dei turni. Salimmo in cinque; ci aspettava uno spettacolo agghiacciante. Al posto delle baracche si ergeva un muro di ghiaccio e detriti alto 35 metri. Gli alloggi non esistevano più. Tutto ciò che rimaneva era qualche asse che spuntava fuori dal ghiaccio. Provai una sensazione indescrivibile di terrore e impotenza. Sapevo che non avremmo trovato superstiti. Il camioncino aziendale ripartì per cercare aiuto. Rimasi solo sul luogo della sciagura, errando come un folle e cercando di tirare a mani nude le assi che sporgevano dal ghiaccio. All’inizio regnava un silenzio macabro e irreale, poi arrivò la polizia, alcuni elicotteri di soccorso e tante ambulanze. Rimasi lì tutta la notte e il mattino dopo. Ma le ambulanze erano arrivate praticamente invano. Pochissimi erano i superstiti. La maggior parte delle ambulanze ripartì vuota. Riuscimmo a trovare l’ultima vittima solo il 19 dicembre: un uomo seduto sul nastro trasportatore, le scarpe ancora vicine, appoggiate con cura. Tutto intorno solo ghiaccio. Di giorno lavoravamo con il piccone e la pala per rimuovere il ghiaccio. Di sera dovevo identificare le salme, perché conoscevo tanti colleghi. Dopo averli identificati li portavamo nella sala cinematografica, avvolti in camici bianchi. La maggior parte di loro era irriconoscibile. Se sono vivo, lo devo a mia moglie. Se avessi vissuto con i miei colleghi nelle baracche adesso sarei morto. Ci eravamo sposati poche settimane prima e lei era venuta a trovarmi in Svizzera. Avevamo affittato un appartamento a Saas Almagell per tutta l’estate». Angelo Bressan, 58 anni, conducente di escavatrici, Gosaldo (Belluno), allora 17 anni: «Il sabato prima della tragedia ero con il mio amico Beppe. Stavamo lubrificando le scavatrici sullo spiazzo davanti alle baracche. Faceva molto caldo e dal ghiacciaio si staccavano dei blocchi che precipitavano e andavano a schiantarsi dietro le baracche. Beppe seguiva con lo sguardo i blocchi di ghiaccio che si staccavano: “se viene il ghiacciaio siamo tutti morti”, disse proprio queste parole. Già prima della tragedia in paese circolava la voce che le baracche fossero state costruite al posto sbagliato, direttamente sotto la lingua del ghiacciaio. All’inizio dei lavori per la costruzione del lago artificiale le baracche erano state sistemate in alto nella valle. Ma quando avevamo riempito il lago avevamo dovuto spostarle. Avevo diciassette anni, ero uno dei più giovani del cantiere e naturalmente non prestavo ascolto a queste voci. A torto, come tutti sanno: due giorni dopo, erano circa le cinque e mezza, eravamo seduti nella mensa a Zermeiggern e stavamo per partire. Era ora di iniziare il turno serale. Improvvisamente un ingegnere piombò nella mensa a braccia aperte. Era pallidissimo. Non dimenticherò mai l’espressione dei suoi occhi. Quasi non riusciva a parlare: “il ghiacciaio, è precipitato sulle baracche”. Rimanemmo tutti in silenzio. Il terrore ci serrava la gola. Poi saltammo sui camion e andammo a prestare soccorso. Quello che vidi non era certo uno spettacolo per un diciassettenne. Ricordo che tentammo di tirare fuori un nostro collega ancora vivo. Dalle masse di ghiaccio si levava un debole lamento. Un cavo elettrico era avvolto intorno al suo corpo. Ci vollero delle ore prima di riuscire a tirarlo fuori. Inutilmente, poco dopo morì sul posto. Era un italiano meridionale, come la maggior parte dei lavoratori del cantiere. Rividi il mio amico Beppe solo alcuni giorni dopo, durante i lavori di recupero delle salme. Era illeso, lo aveva salvato la sua paura. Ci guardammo negli occhi e ci abbracciammo in silenzio. Mi raccontò che mentre lavorava continuava a guardare il “drago” e quando lo aveva visto muoversi aveva capito subito: “Beppe, se vuoi salvare la tua vita corri”, si era detto».

Pubblicato il

26.08.2005 01:30
Maria Roselli