SolidarietĂ  e affari

«Che ne è stato dei tessili raccolti? La risposta è semplice: sono stati venduti». La risposta è talmente semplice nella sua ovvietà che ci stupiamo di... stupirci. Forse i nostri lettori sono meno ingenui di noi e già lo sanno che i vestiti usati messi nel sacco vanno a finire solo in minima parte ai bisognosi. Di più: che i nostri abiti fuori moda vengono smerciati e venduti ai poveri dell’Africa e dell’Europa dell’est. Per pochi centesimi. Che morti di fame (noi, non loro).

Il destino dei vestiti messi nel sacco? Basta andare sul sito di Texaid, l’azienda svizzera leader nella raccolta dei tessili usati, per capire come è organizzato il business degli stracci. Sì, perché i cenci muovono soldi à gogo e c’è chi venderebbe sua madre al diavolo per aggiudicarsi la location migliore all’ecocentro per posizionare il proprio loculo raccogli-panni.

 

Voi, cuori di panna, eravate convinti che il vostro shopping compulsivo di gonnelline, pantaloni e camicie non fosse cosa così impropria dal momento che gli abiti smessi – praticamente nuovi – finivano alle cosidette persone indigenti? Fatevene una ragione: se volete compiere azioni solidali, ve ne dovrete inventare un’altra più convincente.


Non sappiamo neppure come dirla, abbiamo ancora un pudore quando si tratta di notizie indecenti. Va bene, non tergiversiamo più e sputiamo il rospo: gli indumenti ancora in buono stato vengono venduti ai mercati poveri dell’Africa e dell’Europa dell’est. Il che significa che in Tanzania c’è chi pagherà due soldi – per lui sempre un soldo importante – per i vostri jeans di marca. Solo una minima parte finisce direttamente a chi ne ha bisogno senza transazioni.


Ma vediamo di capire di più su che cosa inghiottono quei seimila contenitori sparsi in tutta la Svizzera. Chiedete e vi sarà risposto.


«I capi d’abbigliamento in buono stato vengono preparati per essere venduti nei paesi economicamente deboli (troppa grazia per Sant’Antonio, ndr). I tessili che presentano dei difetti possono essere utilizzati come strofinacci oppure trasformati in materiali isolanti»  spiegano, papali, papali, sul portale di Texaid. E così, quei calzoni con la cerniera rotta, quei paltò dall’aria così d’antan, quei vestitini troppo stretti, quelle magliette che non si possono più vedere, cui noi avremmo dato bellamente fuoco, nel 65% dei casi possono trovare una seconda vita. Ciò che era poi in fondo il nostro pensiero quando abbiamo riempito il sacchetto con i nostri stracci.


Allora depositiamo il sacchetto con la nostra merce dismessa e questa viene trasferita alla catena dello smistamento nel canton Uri. Texaid Schattdorf dispone dell’impianto più moderno dell’intero pianeta: sissignori! Dunque, dicevamo, seguendo il percorso che fanno gli abiti, il 65% viene riciclato con lo scopo di continuare nella sua funzione di indumento, mentre il 15% viene destinato alla produzione di strofinacci o materiali di riciclaggio richiesti in particolare dall’industria meccanica e automobilistica, Strofinacci che « contribuiscono a preservare le materie prime». Solo il 5% della merce raccolta non trova un’ultima chance e viene incenerito come normale e inutile immondizia. «In fin dei conti (lo dicono sempre loro, ndr), il gruppo Texaid rimette in circolazione, valorizzandolo, il 95% dei tessili raccolti, fornendo così un importante contributo alla preservazione di valore e alla protezione ambientale». Un buon traguardo, concordiamo, e pure l’obiettivo della sostenibilità ecologica sembrerebbe centrato. Peccato, solo che il 65% di quei vestiti, che possono essere riutilizzati, debbano viaggiare tanto…


Se nel canton Uri si trova il cervellone della catena, il supermacchinario da far invidia ai computer del Centro di calcolo del Politecnico, è fuori dalla Svizzera che si trovano gli altri centri Texaid. Sì, l’azienda contribuisce a creare posti di lavoro, come si legge su ogni container. Certo, in Ungheria ad esempio dove vengono ritagliati gli strofinacci, che vengono poi distribuiti dalla filiale tedesca di Darmstadt nell’Assia meridionale. E ancora: in Bulgaria e in Marocco. Gli stracciaioli, o meglio le imprese di recupero, non sfuggono alla globalizzazione e anche loro hanno spostato gli stabilimenti dove più conviene.


Se nei confini nazionali Texaid garantisce 160 posti di lavoro, sono complessivamente più di mille i suoi dipendenti. Il che significa che qui si crea il 10% dei posti di lavoro, mentre il 90% in paesi dove gli stipendi sono nettamente inferiori ai nostri. Il giro d’affari? Questo dato, in un sito pieno di numeri, non compare. Comprendiamo. Ci informano che il risultato globale di raccolta è di 75.000 tonnellate, mentre sulla questione soldi si parla solo in riferimento a quanto distribuito grazie ai proventi: «Nel 2013 Texaid ha distribuito agli enti assistenziali e a diverse organizzazioni d’interesse collettivo profitti dell’ordine di sei milioni di franchi». Sei milioni, quanto è dunque la cifra d’affari? Deve essere enorme perché sulle pezze, riusciamo quasi a sentirlo, è forte il profumo di soldi. Andiamo a vedere chi sono gli enti assistenziali.

 

Quando leggiamo Fondazione per i bambini Ronald McDonald’s ci viene voglia di andare a recuperare quel sacco di vecchi vestiti che una volta abbiamo depositato perché troppo impigriti per trovare altre soluzioni. Perché anche nelle modalità solidali ognuno ha il suo modo di procedere. Non è questo il punto su cui discutere, ma del fatto che le persone, davanti al guardaroba che scoppia, si disfano di un capo con la convinzione di fare un bel gesto a favore di coloro, in numero crescente, che non hanno i mezzi per soddisfare un bisogno di prima necessità. E invece, solo una minima parte è obolo, tutto il resto è business travestito da solidarietà con nuance verde-ecologica.


Attorno al riciclo c’è un grande interesse. Passaggi di mano, trasformazione, rivendita, in tanti possono ritagliarsi la loro fetta di torta, mentre non accade quasi mai che i vestiti usati passino direttamente ai poveri in una sorta di chilometro zero. Qualcosa puzza, ma è una puzza consentita, è business. Non c’è reato, lo ripetiamo. È forse bene sapere come si alimenta la catena.


Perché Texaid è presente proprio in Marocco e in Bulgaria? La risposta questa volta è facile anche senza suggerimento. Il mercato dei vestiti usati ha il suo epicentro in Africa e in Europa dell’est: anche per gli indigeni, che sono davvero poveri in canna, questi capi risultano accessibili. I vestiti vanno a formare grosse balle che vengono esportate e vendute a 50 centesimi di euro (o di franco) al chilo. Va bene, non fate tanto i sofisti, penserà qualcuno: in fondo anche per i poveri tutto ciò è sostenibile dal momento che riescono a permettersi di comprare i nostri stracci dismessi. È vero, potrebbe anche stare in piedi detta così, ma come la mettiamo con i dati che ci indicano la scomparsa dell’industria tessile in Africa perché sommersa e stroncata dalle pezze europee e americane?


Insomma, fanno un giro lunghissimo i nostri vestiti per finire ricamati a pennello sulla pelle dei morti di fame cui si toglie sempre l’osso di bocca e glielo si ridà solo quando è stato finemente spolpato.  
Ci sono altri modi di smaltire il nostro usato, come consegnarlo a organizzazioni alternative e alle piccole realtà di volontariato: in questo caso si accorcia la filiera e si è sicuri che gli stracci non servano a finanziare un mercato da straccioni con la cravatta.

Pubblicato il 

18.03.15
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