Con la riforma della legge sulla disoccupazione il parlamento ha sferrato un colpo di maglio al sistema di protezione sociale dei lavoratori, mandando in frantumi la costruzione eretta attorno ai diritti dei senza lavoro. I sindacati dicono di assistere ad uno scempio e contestano una riforma a senso unico: le Camere hanno agito con la chiara intenzione di alleggerire il peso contributivo delle aziende e dei lavoratori attivi con reddito medio-alto ridimensionando drasticamente sussidi e prestazioni ai disoccupati. Le organizzazioni dei lavoratori non ci stanno e indicono un referendum popolare. La raccolta delle firme è iniziata di buona lena, all’indomani della pubblicazione ufficiale della legge, il 10 aprile, ma è una corsa contro il tempo. Mancano meno di tre mesi, entro il 18 luglio, per deporre alla cancelleria federale le cinquantamila firme. Il fronte referendario ha registrato nelle ultime settimane l’adesione del Partito socialista che si è alleato ai Verdi, al Partito del lavoro, e all’Alleanza di sinistra. Il versante non politico, che riunisce tutte le forze sindacali, si estende all’Unione nazionale degli studenti e al Comitato nazionale delle associazioni di difesa dei disoccupati. Si tratta forse della cordata più ampia riunita attorno alla difesa dei lavoratori. L’iter legislativo era pertanto stato mosso con una buona intenzione – equilibrare la bilancia dei contributi versati e sussidi erogati – ma, al traguardo, l’obiettivo del risanamento dei conti è stato raggiunto mettendo mano alle sole risorse dei disoccupati. Da ventiquattro mesi il periodo di copertura assicurativa passa a diciotto mesi (da 520 a 400 indennità giornaliere), eccezion fatta per gli invalidi e le persone oltre i 55 anni di età. Per avere diritto al sussidio bisognerà aver contribuito per almeno dodici mesi, contro i sei attuali. Misure che consentiranno una diminuzione del prelievo per circa due miliardi. Economie che saranno fatte a vuoto, dal punto di vista della tesoreria pubblica, e gioveranno ai soli contribuenti «attivi»: datori di lavoro e salariati potranno beneficiare complessivamente di un aumento del potere di acquisto. Con la ripresa dell’economia il parlamento intende dunque offrire una tregua contributiva e ripristinare il tasso di contribuzione che vigeva prima del 1995, quando il governo incrementò dell’1% il prelievo per far fronte al finanziamento dei sussidi ai disoccupati, il cui numero era in continuo aumento a seguito della crisi economica. Sull’onda della cosiddetta «tregua contributiva» il parlamento è addirittura andato oltre il mandato iniziale, annullando interamente il «prelievo straordinario di solidarietà», corrispondente al 2%, che viene effettuato sulle remunerazioni comprese tra 107mila e 267 mila franchi. In prima battuta i deputati avevano inteso conservare un residuo 1%, con la benedizione del governo e perfino del ministro dell’Economia, Pascal Couchepin. Poi, dietro la pressione dei senatori, hanno deciso di ridurre a zero il solidale obolo dei redditi medio-alti. L’obiettivo delle manovre parlamentari è ridurre il finanziamento dell’assicurazione ad un massimo di 5 miliardi, a fronte dei circa 7 miliardi generati nel 2000 con il prelievo paritario del 3%, cui si aggiunge il contributo di solidarietà (2%) effettuato sui maxi-salari. Deputati e senatori rispondono alla regola detta «anticiclica»: costituire delle riserve durante le vacche grasse per poi rimettere mano al portafoglio in tempo di vacche magre. Il risultato è una legge che toglie ai meno abbienti per dare a chi non ha bisogno e recide nettamente il filo della solidarietà che unisce i lavoratori attivi ai disoccupati. Su un piatto della bilancia il parlamento mette dunque un aumento globale di due miliardi del potere di acquisto dei padroni e dei redditi medio-alti, prelevandoli di fatto dall’altro piatto, quello dei sussidi ai senza lavoro. Su questo punto Patrice Mugny, deputato ginevrino eletto nei ranghi dei Verdi, esprime ad «area» tutto il suo «stupore e indignazione» rinviando a quel «contesto generale che vede le forze conservatrici mettere tutte le risorse dalla parte dei benestanti a discapito delle fasce popolari che hanno bisogno di protezione». Per il co-presidente degli ambientalisti svizzeri la riforma dell’assicurazione disoccupazione è «uno degli elementi dell’edificio liberal-conservatore costruito con i mattoni e il cemento di leggi discutibili come per esempio quella che ha introdotto agevolazioni fiscali per le famiglie con redditi alti, o medio-alti». Sulla novità dell’innalzamento da sei a dodici mesi del periodo contributivo minimo per aver diritto ai sussidi, Serge Gaillard, segretario dell’Unione sindacale svizzera (Uss) ammonisce il tentativo di «colpire i soggetti più deboli sul mercato del lavoro, le persone assunte in condizioni precarie, i giovani e le donne in particolare». La contrazione di un terzo dei sussidi, ricavata passando da 24 a 18 mesi, è giudicata una misura che penalizza i disoccupati di lunga durata, «come se fosse colpa loro, e non del mercato, se non riescono a trovare lavoro». Al di là del «trasferimento delle risorse dai più deboli ai più forti», analizza Pierre-Yves Maillard, deputato socialista vodese, la riforma infrange quel principio di solidarietà che mantiene in piedi la fragile costruzione sociale a difesa dei lavoratori, «invertendone incredibilmente il senso, togliendo a chi non ha risorse per dare a chi invece di risorse ne ha», spiega ad «area» il deputato-sindacalista. La Svizzera è un paese in cui il diritto del lavoro risulta sbilanciato a favore della tutela del libero mercato e delle aziende. La rete di protezione dei lavoratori si è stretta negli anni della crisi attorno all’idea che le attività produttive e il reddito aziendale o salariale dovessero fare la loro parte a sostegno di quella parte della forza lavoro rimasta esclusa per ragioni congiunturali. Nel 1995 l’aumento della contribuzione alla cassa disoccupazione dal 2 al 3% seguiva questa considerazione, in vista del successivo riassorbimento della forza lavoro disoccupata. Con la riforma varata a fine marzo, riportando le lancette agli anni precedenti la crisi, il parlamento chiude ingenuamente un capitolo ancora aperto. I tempi non sono ancora maturi, avverte un analista ginevrino. La ripresa c’è, ma è di carattere congiunturale. Soltanto attuando riforme di ampio respiro, che vanno nel senso del rafforzamento della protezione sociale e non del suo smantellamento, il rilancio dell’economia svizzera potrà trasformarsi in sviluppo. Il momento è propizio per allargare i diritti e non per ridurli. Nessuno mette in dubbio che una nuova crisi economica produrrebbe precarietà e allarme sul fronte della disoccupazione. Invece di prevenire il male, il parlamento ha preferito adottare la politica dell’intervento a cose avvenute, quando ormai il danno è fatto. «Tutti i lavoratori sono dei potenziali disoccupati», osserva Pierre-Yves Maillard. «Il fallimento della Swissair insegna che nessuno è al riparo da sorprese» Contro questo pericolo il parlamento fornisce un «freno di emergenza» a disposizione dei cantoni con una disoccupazione superiore alla media, delegando la possibilità di alzare nuovamente a 520 giorni la durata delle prestazioni. «Le conseguenze dovrebbero essere già note tramite la pratica delle sovvenzioni dell’assicurazione malattia. I cantoni ad alta disoccupazione andranno incontro a grosse difficoltà finanziarie. E dovranno cavarsela da soli, come se il problema riguardasse soltanto la loro porzione di territorio», accusa Serge Gaillard. Insomma ci sono tutti i presupposti per lanciare un referendum. E l’altro giorno a Berna è stato puntualmente lanciato.

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26.04.02

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