Solidarietà e incubi ad alta quota

Reportage dal Lucomagno, dove da giugno in un bunker sono alloggiati i rifugiati.

A 2.000 metri d’altitudine, varcando il passo del Lucomagno che segna il confine tra il Canton Grigioni e il Ticino, dalla strada di collegamento nazionale e internazionale non lo si vede, nascosto com’è da una collinetta. Posteggiando all’ospizio e incamminandosi verso il lago di Santa Maria, qualche escursionista si sarà chiesto che cosa celino quei teloni di plastica sorretti da grate, su cui campeggiano cartelli “proibito fotografare”, sorvegliati da agenti di sicurezza privata. Nascondono esseri umani.
Dallo scorso 5 giugno dormono in un bunker militare in disuso una cinquantina di persone che hanno inoltrato domanda d’asilo in Svizzera. Non sono sempre gli stessi, ogni 4-8 settimane è previsto che lascino il bunker per altri centri. Oltre a vitto e alloggio, ricevono tre franchi al giorno per un totale di 21 franchi settimanali che vengono consegnati  loro al venerdì.


Nei fine settimana possono allontanarsi dal bunker grazie a delle giornaliere gratuite per i trasporti pubblici. Il paese più vicino, Medels, dista una decina di chilometri. Possono svolgere lavori di pubblica utilità pulendo boschi, sentieri o letti dei fiumi dietro compenso di 30 franchi giornalieri.
L’importo non viene però consegnato nei fine settimana, lo riceveranno solo il giorno del trasferimento in un altro posto. Va anche specificato che non vi è lavoro per tutti i richiedenti. Di norma, vi è un principio di rotazione in cui è previsto un periodo di attesa di otto giorni. Mediamente, nelle sei settimane in cui soggiornano al Lucomagno riescono ad accumulare circa 600 franchi per oltre un mese di lavoro. Due volte la settimana una docente tiene dei corsi di tedesco.


Oltre l’isolamento sociale in settimana, di negativo vi è l’aerazione all’interno del bunker. Quest’ultima è garantita da un motore che fornisce un flusso d’aria all’interno della struttura sotterranea. Ogni trenta minuti, un agente di sicurezza (che di notte resta sveglio nella baracca esterna) entra nel bunker per verificare il funzionamento del motore. Il rischio, concreto, è che le persone muoiano nel sonno per mancanza d’aria. Sulla qualità dell’aria, le testimonianze raccolte sono concordi: è pessima. Soprattutto nei mesi di massima utilizzazione, quando dormivano sedici persone per stanza, per un totale di una cinquantina di persone. Ora che il bunker dovrebbe essere chiuso nei prossimi giorni per la stagione invernale, non arrivano più nuovi “ospiti”.

 
Al bunker del Lucomagno, gli unici referenti dei richiedenti l’asilo sono gli agenti di sicurezza privata. Nessun operatore sociale o medico fa loro visita durante la settimana. «Se qualcuno di noi sta male, un agente di sicurezza gli dà delle pastiglie. Ma non è un medico o formato in questo senso» ci hanno raccontato diversi di loro e confermato gli stessi agenti di sicurezza. Area ha avuto l’opportunità di incontrare queste persone senza l’ingombrante sguardo vigile delle autorità, come accaduto con altri media. Sono stati dunque liberi di esprimersi senza temere ripercussioni. Ne è emerso un quadro per nulla idiliaco, non tanto per l’isolamento e le condizioni imposte che certo influiscono, ma piuttosto per una rabbia, una disperazione per essere condannati a errare da una restrizione di libertà all’altra, unicamente perché “colpevoli” di non avere le carte in regola come le chiede il sistema. La speranza di poter avere una vita normale, gli viene ricacciata indietro a forza finché si spegne nel loro cuore.

 

La fortuna dipende dai punti di vista

 

«Sono fortunati – accenna in tono confidente il poliziotto mentre vigila il presidio di solidarietà coi migranti al Lucomagno – hanno la televisione, un tetto e cibo. E sono liberi di rientrare nel loro paese quando vogliono». Non possiamo resistere e porgli la domanda: «Sarebbe disposto a cambiare la sua vita con la loro?» «Una settimana, anche due, certamente» risponde senza esitare. «E tutta la vita?». Mi guarda silenzioso e poi si allontana.


La fortuna dipende anche dal caso o dai misteriosi disegni della provvidenza, a seconda delle proprie convinzioni. Si ammetterà che nascere in un villaggio di un paese martoriato da guerra, fame o povertà non è la medesima cosa che venire al mondo in un ospedale della Prettigovia grigionese. Forse il poliziotto non ha ascoltato le loro storie di vita da migranti, sempre in corsa per sopravvivere.  Si potrebbe dire che sono stati fortunati nell’essere sopravissuti ai barconi che fanno la spola tra Africa ed Europa, oppure ai carceri libici nel deserto o alle guerre civili che infuriano nei loro paesi. Come dicono gli stessi migranti, preferiscono essere alloggiati in un bunker all’interno di una montagna in alta quota, piuttosto che nei Centri d’identificazione ed espulsione (Cie) come quello milanese di Via Corelli. Dei posti definiti talmente indegni che perfino l’Alta corte tedesca ha vietato le espulsioni verso l’Italia (come previsto dagli accordi Dublino), considerate le pietose condizioni di detenzione dei Cie. E scegliere tra un bunker o un Cie non si può dire che sia un privilegio. «Ho la sfortuna di essere nato in un villaggio della Costa d’Avorio invece che in ospedale. Sfortuna perché ora avrei un certificato di nascita, e quindi un passaporto col quale poter sperare di costruire una vita normale», racconta un 38enne, con una decina di anni trascorsi nel cercare di sopravvivere tra le due sponde del Mediterraneo. “Cittadinanza sconosciuta” riporta il suo permesso di circolazione provvisorio emesso dalle autorità migratorie elvetiche. Senza il passaporto non può essere rimpatriato perché la Costa d’Avorio non lo accetta. E senza quel passaporto non può sperare in una vita normale perché sulla carta non esiste.


Nato nella casa di famiglia, perde presto i genitori e gli zii in disgrazie. Allevato dalla nonna, ancora ragazzino è costretto a scappare dal villaggio perché la nonna è accusata di essere una strega che porta sfortuna a chiunque gli sia vicina. Una credenza “provata” dalla morte dei suoi genitori. Fugge dapprima nel confinante Burkina Faso, poi nel Mali, dove spingendosi attraverso il deserto sahariano raggiunge il Marocco. Da lì, supera i pochi chilometri di mare che dividono il continente africano da quello europeo, arriva in Spagna, poi in Francia e infine l’Italia. Dorme nelle stazioni, dove è possibile avere un pasto caldo e qualche vestito dalle organizzazioni caritatevoli. Per il resto, la vita in strada impone le sue regole di sopravvivenza.

 

In Italia viene rinchiuso al Cie di Via Corelli, detenuto per 18 mesi per il reato amministrativo di soggiorno illegale. «Quel posto è un inferno». E ora, da qualche settimana vive confinato nel bunker ad alta quota. «Ho visto posti peggiori nella mia vita. Non mi lamento facilmente. È strano però vivere sottoterra, come fossimo nella preistoria, all’epoca delle caverne. Il problema maggiore è la qualità dell’aria. Soprattutto quando eravamo in una cinquantina a dormirci, la respirazione era difficoltosa. Sapere che se quel motore si ferma, muori nel sonno, non è per nulla piacevole».


È solo una delle tante storie ascoltate da africani in alta quota. Provengono dal Senegal, dalla Nigeria o dai paesi del Maghreb. Tutte diverse e tutte simili nei loro percorsi. La tristezza che traspare dai loro occhi non è dovuta solo a un drammatico passato, forse in qualche modo elaborato. Vivere giorno per giorno senza certezza alcuna, con la paura di essere arrestato, estradato o di subire chissà quale altro destino per il solo fatto di non avere i documenti in regola. È questo che li annienta. È la speranza negata di un futuro normale che  li fa soffrire. No, chiamarli fortunati proprio non si può.

 

Solidarietà ad alta quota

 

A rompere l’isolamento sociale ci hanno pensato domenica scorsa una quarantina di attivisti di varie organizzazioni di base: Csoa il Molino, Movimento dei Senza Voce, Scintilla, Stop all'ignoranza, Gioventù Biancoblu e Collettivo Zapatista. «Splende il sole sul passo del Lucomagno, i flussi si attraversano. – scrivono in un comunicato. – L'incontro complice in vetta, sotto gli sguardi stupiti e incuriositi dei turisti inconsapevoli, attorno a un pranzo condiviso, con la musica ad alimentare la rabbia, fa emergere le storie personali, le speranze e i dolori, troppo spesso ignorati». Un presidio ad alta quota che oltre a creare un momento di aggregazione coi migranti, vuole essere anche una forte denuncia sociale  «delle politiche migratorie della Svizzera e della Fortezza Europa. Quelle dei muri, delle deportazioni, dei centri di reclusione, delle tragedie, del razzismo».


«E, soprattutto, – scrivono – per rendere visibili le caratteristiche condizioni di“ospitalità” elvetiche, generosamente elargite ai 40-50 migranti sotterrati nel bunker del Lucomagno e di condanna per l'idilliaco contesto dipinto da media e politici, mentre la realtà dei fatti è  ben diversa, come sottolineano i migranti stessi. “È una falsa libertà. Di fatto siamo rinchiusi tra queste montagne, ci sentiamo prigionieri. Spesso sale la depressione, l'angoscia...”».


«L'esperienza bunker-Lucomagno – proseguono gli attivisti – è l'ulteriore passo verso la disumanizzazione completa del migrante. Anche se in fondo basta poco, come visto oggi,  a rendere visibile quello che si vorrebbe sotterrare. Una presenza complice non è che un primo passo per rompere gli schemi della rassegnazione. La necessità di restare umani, che squarcia la fredda indifferenza e che si oppone attivamente alle politiche volte a condannare allo stato di subumani chi ha la sola colpa di non possedere dei documenti».
Per il comunicato integrale, si può consultare il sito www.inventati.org/molino

Pubblicato il

10.10.2013 14:39
Francesco Bonsaver
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