Socualità, riconoscere i propri limiti


Quanti operano nell'ambito sociale sanno che il loro intervento ha spesso un effetto a medio o lungo termine. Cercare risultati immediati è illusorio e, non di rado, controproducente. Nell'azione sociale l'efficientismo si scontra volentieri con la dura realtà (dura perché resa tale da altri o perché considerata così dalla persona in difficoltà, a torto o a ragione poco importa) dei problemi quotidiani. E poiché essi hanno il più delle volte (dolorose) radici nel vissuto individuale o familiare, la loro soluzione fa a pugni sovente con l'incapacità di spezzare i tanti circoli viziosi (non solo psicologici) che qualunque essere umano finisce per costruirsi addosso. Per l'operatore sociale, individuare il bandolo della matassa è una sfida a cui non sempre è in grado di dare seguito, soprattutto perché di fatto sta alla persona in stato di necessità scovare gli spiragli di luce o le vie d'uscita (meglio se non sono vie di fuga…) da condizioni complesse. Per evitare di cedere al facile assistenzialismo, dai risultati forse immediati ma di sicuro permanentemente instabili, chi agisce nel campo della socialità (a tutti i livelli) è chiamato a farsi carico non tanto delle contraddizioni altrui, bensì piuttosto della fatica di non poter sempre determinare con precisione i tempi per la risoluzione dei problemi. La pazienza, la determinazione e la speranza sono le virtù che dovrebbero sostenere ogni sua azione.
Per un ente come Sos Ticino risulta indispensabile coltivare una consapevolezza del genere, in particolare per quelle situazioni nelle quali è tenuto ad operare in fretta, in uno stato di costante urgenza. Avere a che fare con migranti, disoccupati ed indigenti ci mette regolarmente a confronto con storie drammatiche, non sempre narrabili, come pure con la cosiddetta esperienza del limite. Nemmeno l'evidenza dei fatti (ciò che può apparire ovvio a persone abituate a giudicare con criteri occidentali o svizzeri) basta a convincere dell'utilità o della bontà di una determinata decisione. Ed il confine o la barriera che posso stabilirsi tra noi (operatori) e loro (immigrati, disoccupati o poveri che siano) possono essere invalicabili – non tanto geografico, bensì mentale, fisico o culturale. Tutto questo necessita di una buona dose di umiltà e tenacia, poiché per la legge dell'empatia i limiti altrui possono diventare facilmente i propri. Ancor maggiore, però, può risultare la difficoltà di rendere attenti i non addetti ai lavori, la collettività nel suo insieme (che bene o male stabilisce le regole di convivenza), i funzionari preposti e la classe politica del fatto che, a proposito di socialità, non sempre pragmatismo e risparmio sono le risposte migliori all'esplosione del disagio sociale. Così come la repressione non è l'unica soluzione alla devianza sociale. Si tratta piuttosto, mi pare, di rinsaldare gli anelli di una catena che da diversi decenni s'è allentata e non consente più di sperimentare la freschezza del respiro che trasforma il bisognoso da comparsa a regista della sua storia.

Pubblicato il

04.07.2008 13:00
Martino Dotta
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