Silvio vincente? “Si può fare”

«Si può fare», ha cantato Walter Veltroni per tutta la campagna elettorale, battendo in lungo e in largo il paese e le sue 120 province. Il sindaco d'Italia ha lanciato un grande sogno vestendo i panni di Barak Obama e facendo indossare al paese quelli americani della statua della libertà. Basta frammentazione, partitini, luoghi comuni della sinistra, chiamiamoci semplicemente, pacatamente, democratici e andiamo alla conquista del governo. Non ci sono più nemici ma solo avversari, noi siamo quelli dei Sì, in economia come sull'ambiente, e della fine della lotta di classe perché i padroni non esistono più dato che tutti stiamo sulla stessa barca. Risultato: il Partito democratico resta fermo al palo del 35 per cento scarso, la destra stravince con un margine di 8-9 punti e a sinistra il deserto. Cancellata dal diktat del voto utile (nonché dai suoi errori e da una legge elettorale golpista) la Sinistra Arcobaleno, passata dal 12 al 3,3 per cento e da 150 a 0 deputati e senatori. Via i comunisti dal Parlamento, via gli ambientalisti e via anche i socialisti a cui Veltroni ha negato persino l'apparentamento con il Pd. E' la fine della lunga transizione italiana iniziata con Tangentopoli ed è la conclusione perfetta del processo aperto nel Pci dopo l'89. La statua della libertà è nuda e dietro di essa brinda il Popolo delle libertà.

E' questo, in sintesi, il quadro che emerge dal voto delle urne italiane, aggravato dal fatto che il successo di Berlusconi è rafforzato - meglio dire aggravato - dal raddoppio dei voti della Lega nord di Umberto Bossi che si è consolidata come primo partito operaio. Sì, operaio, perché ha fatto il pieno dei voti tra i lavoratori dipendenti, sempre più delusi e distanti dalla politica e in special modo dal centrosinistra e dalla stessa sinistra che in due anni di governo hanno tradito aspettative e violato i loro stessi programmi.
I salari operai hanno continuato a perdere di peso, le disuguaglianze a crescere con l'aumento della forbice sociale tra pochi ricchi e tanti poveri, il comando in fabbrica è tornato saldamente nelle mani di quelli che non esisterebbero più: i padroni. Così Bossi ha fatto il pieno nel nord, discendendo con successo la penisola fino alle regioni rosse del centro, sbarcando addirittura in Sicilia con un accordo con gli autonomisti guidati da Lombardo. Alla faccia dei partiti soft, di plastica, il vincitore delle elezioni è il partito di Bossi, radicato nel territorio e portatore di valori (ci si perdoni il termine) forti. La logica è semplice: se i partiti sono tutti uguali, se la sinistra non porta i miei temi in Parlamento, se io operaio sono sempre più solo, precario, senza sicurezza sociale e sul lavoro (dove crescono morti e infortuni, all'inizio della settimana addirittura un'altra vittima alla ThyssenKrupp), tanto vale votare per Bossi. Sulla Lega e sull'astensione che cresce di tre punti - e non su Grillo che ha registrato un flop - confluisce l'antipolitica. Se il mio nemico non è più il padrone scelgo per nemico l'immigrato, se non c'è pane per tutti bastono quello che sta un po' sotto di me nella scala sociale. O magari voto Berlusconi che ci farà pagare meno tasse. Se proprio non sono fascista, liberista e razzista scelgo un voto utile, il Pd. Utile a chi? Al presidente di Federmeccanica Calearo, al figlio del capitano coraggioso Colaninno, al giuslavorista Ichino che vuole sterilizzare lo Statuto dei lavoratori?
Il ribaltone italiano si estende lungo il territorio italiano senza pietà.
Si votava anche per le amministrative in importanti città, province e regioni: in Friuli Venezia Giulia caffè amaro per Illy che viene rimandato a casa al primo turno dalla destra che conquista una terra importante, di frontiera in tutti i sensi. In Sicilia il sogno veltroniano è caduto dal ponte di Messina e la destra, ricompattatasi con l'Udc di Cuffaro e Casini e rifatto il pieno del voto mafioso (ricordate "l'eroe" Mangano, lo stalliere di Berlusconi a cui Veltroni aveva giustamente contrapposto gli "eroi" Falcone e Borsellino?), sbanca e lascia l'intero centrosinistra indietro di 30 punti percentuali. Alle amministrative Veltroni non ce l'ha fatta a suicidarsi del tutto e ha accettato di presentarsi insieme alla sinistra, contenendo lo smottamento a destra dell'elettorato.
Nelle province e nelle città in cui si è votato è andata appena meglio che alle politiche (soprattutto per la Sinistra Arcobaleno), ma non al punto di riconfermare Roma al primo turno: l'ex sindaco della capitale Rutelli  dovrà vedersela tra due domeniche con il capo della destra sociale, Alemanno, indietro di 5-6 punti percentuali e che al secondo turno potrà avvalersi dei tanti voti raccolti dalla destra apertamente fascista di Storace.
Più che una sconfitta, una debacle. Sicuramente ha inciso la pessima figura fatta dal governo Prodi, affossato da se stesso e tecnicamente dal "tradimento" di Dini e Mastella. Hanno pesato le scelte economiche e sociali incentrate sui due tempi, prima il risanamento con annessi sacrifici e poi la redistribuzione della ricchezza. La partita è durata un tempo solo e sono rimasti solo i sacrifici e le ingiustizie che hanno colpito la parte più esposta della popolazione, impoverendola. Le ricchezze si sono ulteriormente spostate dal lavoro ai profitti e alle rendite, i soldi del cuneo fiscale sono finiti per intero ai padroni, i salari e le pensioni non sono stati sostenuti. Di buono il governo Prodi ha fatto la lotta all'evasione fiscale, accumulando tesoretti che però non sono finiti nelle tasche vuote dei lavoratori dipendenti ma a risanare il debito, obbedendo a differenza degli altri paesi dell'Unione ai diktat dell'Europa e degli organismi finanziari internazionali. E ora ci aspettano tempi ancor più duri. Con la recessione alle porte.
Naturalmente le cause della sconfitta sono molte, andranno studiate con calma. Abbiamo cinque anni di tempo per riflettere. Con la sola consolazione che gli italiani all'estero si sono comportati un po' meglio di quelli in patria confermando una maggioranza democratica in voti e seggi alla Camera (7 deputati su 12, ma i dati sono ancora provvisori e i ricorsi anti-brogli, anche in Svizzera, molti) e una parità al Senato facendo perdere un seggio al Pd.

Da dove ripartire

E adesso che si fa? La domanda è pressante, ripetuta, quasi disperata. Per la prima volta in Italia non esiste una sinistra in Parlamento, intendendo come partiti di sinistra quelli disposti a chiamarsi e farsi chiamare così. Il Pd è un'altra cosa, è un partito democratico e sarebbe sbagliato forzarne la natura contro la sua stessa volontà. Non c'è più in Parlamento un solo eletto apertamente antiliberista, apertamente schierato con i lavoratori e non equidistante tra capitale e lavoro; non uno apertamente contrario alla Tav in Val di Susa o alla costruzione di una nuova base americana a Vicenza. Non uno che prenda in considerazione la decrescita economica o la ripubblicizzazione dell'acqua e dei beni comuni. L'elenco delle assenze sarebbe lungo. Non siamo alla fine della storia. La società italiana è complessa, articolata, sconfitta ma non pacificata. C'è una sinistra diffusa, certo frantumata nel territorio ma ancora viva. L'implosione della Sinistra Arcobaleno e la fine di quel progetto nelle sue forme originarie aumenterà i problemi ma costringerà tutti a ripensarsi. Ci sono organizzazioni di massa come l'Arci, con il suo milione di tesserati in giro per l'Italia. C'è la Cgil, soprattutto, con i suoi cinque milioni e mezzo di iscritti, che paga le conseguenze della sconfitta aggravate da una sua perdita di autonomia durante i due anni di governo Prodi, a cui ha fatto da stampella. Pesa il sostegno al protocollo su welfare e pensioni, pesa la mancata battaglia contro la precarietà, pesa la scelta di Epifani e della quasi totalità del gruppo dirigente di essersi schierata senza distinguo al fianco di Veltroni, riportando il maggior sindacato italiano ai tempi della vecchia cinghia di trasmissione. Ci sono i movimenti nel territorio legati al tema dell'ambiente, c'è quel che resta del più imponente movimento pacifista del mondo, ci sono i sindacati di base. Insomma, c'è l'altra Italia, con la schiena rotta e una testa che potrebbe rialzarsi.
Da dove si riparte? Dalle contraddizioni del reale, dallo stato di cose esistenti. Dalla materialità delle condizioni di lavoro. Fermiamoci alla Cgil. Epifani ha due strade davanti a sé. La prima è continuare nell'epurazione della sinistra, accompagnata da un processo che punta al sindacato unico con Cisl e Uil come se il Pd avesse vinto. Con chi si fa ora la concertazione, con Berlusconi e Bossi? L'altra strada è quella di ripensare alle proprie scelte, tornare a difendere il contratto nazionale che si vorrebbe sterilizzare, opporsi alla defiscalizzazione degli straordinari e alla logica per cui se i salari sono bassi basta far lavorare più ore gli operai. Ritrovando una piena autonomia dai padroni, dai partiti e dai governi. E la sinistra politica? L'Arcobaleno è tramontato e ora si tratta di ricominciare con la semina. Innanzitutto ricostruendo il perduto insediamento sociale nel territorio e nei posti di lavoro, ricominciando a tessere un legame con le figure sociali colpite dalla deregulation politica ed economica, a riallacciare i fili del telefono con i movimenti sopravvissuti allo tzunami. Il tempo del raccolto è lontano, ora è il tempo della semina. Nei paesi, nei quartieri, ai cancelli delle fabbriche, riscoprendo il gusto per una politica vera, non televisiva. In tanti devono farsi l'autocritica, chi ha abbandonato la parola left per scoprire il loft, come il Pd; chi ha scelto di aprire la sua sede nazionale in via Veneto, come la Sinistra Arcobaleno. Un passo indietro per farne due avanti.

Pubblicato il

18.04.2008 03:00
Loris Campetti