Silicon Valley, microcosmo degli eccessi del capitalismo

Un tempo (anni Settanta, Ottanta) il Ticino, con alti proclami in Gran Consiglio, voleva essere la Silicon Valley della Svizzera. Quanto a dire, dar vita a start-up (nuove imprese tecnologicamente innovative) che dessero una prospettiva di avanzato sviluppo economico, liberandolo dalle monoculture economiche (edilizia, banche nutrite dai capitali in fuga dall’Italia) e ricca di “maggiore valore aggiunto”, espressione che diventò, rimase ed è tuttora un mantra cantonale, sempre accompagnato da promesse e politiche di generosità fiscali.

 

In quei sogni non si teneva però conto che, per renderli realtà, ci voleva anche la “filosofia economico-finanziaria” che ispirava la Silicon Valley. La quale consisteva nell’assumersi importanti rischi finanziari. Come capitava in quella valle californiana, occorreva sì ospitare spirito di inventiva (tecnologica) e di iniziativa imprenditoriale, ma poi bisognava anche trovare chi metteva il capitale, pronti a rischiare cento per ottenere venti o anche zero. È vero che quella volta che funzionava ottenevi... Google, Facebook, Apple, Twitter, YouTube, Whatsapp, eBay e via enumerando.


Oggi, a raccontarla tutta, con quel che è stato e con quanto avviene e si dice, personalmente mi sento ridicolizzato. Ci sono stato nella Silicon Valley, in particolare a Palo Alto. Ne avverto ancora un misterioso fascino dovuto forse allora a un capirci poco di quel che vi accadeva o si tramava e si otteneva. Mi affascinò maggiormente una consunta dispensa donatami da un ricercatore dell’Agricultural Research Institute (Ari), di cui avevo visitato gli orti disseminati anche da allarmanti avvertimenti: “attention snakes”, attenzione serpenti. In quanto la ricerca o la grande invenzione era quella di trovare piante, fiori o persino lunghi neri serpenti che salvavano le buone colture dai parassiti ed evitavano i prodotti chimici. Per quella Silicon Valley gli amici delle sezioni agricole cantonali, informati, ebbero un sorriso di sufficienza. E forse era invece la più realistica e proficua strada da seguire per il Ticino, rimasto valle.


C’è chi ha scritto che “la Silicon Valley è il microcosmo degli eccessi del capitalismo”. Per i 200mila impiegati licenziati in un anno con l’immancabile pretesto della ricerca della maggior produttività: per la bancarotta (prima della Svb) della piattaforma di criptomonete (là in parte inventate) Ftx? No, per le enormi ineguaglianze rilevate e descritte dall’Institut Joint Venture Silicon Valley pubblicate lo scorso 17 febbraio.

 

La Valley, un enclave di 120 chilometri quadrati (2.800 il Ticino) conta 85 miliardari e 163mila milionari; 10 per cento degli abitanti posseggono il 66 per cento del patrimonio totale della regione, l’1 per cento il 36 per cento delle risorse. Otto contribuenti, da soli, “pesano” più di 500mila abitanti; 220mila economie domestiche non posseggono più di 5mila dollari; più di un quarto (23 per cento) dei residenti è sotto la soglia di povertà e, considerato il costo dell’alloggio, 91mila abitanti hanno dovuto abbandonare la Silicon Valley negli ultimi due anni. Commenta il presidente dell’Istituto Jvsv: «Abbiamo le maggiori diseguaglianze del paese; il capitalismo ha alcuni attributi grotteschi, l’uno dei quali è creare  questi abissi immensi».


Che la Silicon Valley sia “il microcosmo degli eccessi del capitalismo” è la tesi sostenuta nel libro “Palo Alto. A History of California, Capitalism, and the World”, di Malcolm Harris, apparso (guarda caso) prima del fallimento della Svb, diventato subito un bestseller. È, per dirla in sintesi, la storia di una macchina mostruosa per fabbricare ineguaglianze.

Pubblicato il

22.03.2023 15:00
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