Siamo ancora italiani

Quarant’anni fa, con il documentario “Siamo italiani”, il regista Alexander Seiler fece scalpore: quel film s’interessava senza pregiudizi alla condizione della prima generazione di immigrati italiani in Svizzera, considerandoli non come numeri di un’anonima forza lavoro, ma come esseri umani. Grazie a Seiler per la prima volta nel 1964 gli svizzeri furono costretti a prendere coscienza che, come avrebbe scritto Max Frisch, non erano arrivate solo braccia, ma uomini. Ora Seiler è tornato sui suoi passi ed è andato a cercare alcuni dei protagonisti di quel film. Li ha ritrovati nel borgo di Acquarica del Capo, in Puglia. Con loro e con i loro figli ha girato un nuovo documentario, “Il vento di settembre”. Gli immigrati di prima generazione, per lo più tornati ad Acquarica, si godono oggi con orgoglio un benessere anche sfarzoso conquistato in anni di duro lavoro e di amare umiliazioni in Svizzera. I loro figli e nipoti, quelli della seconda e terza generazione, vivono invece più in profondità la lacerazione di essere senza vere radici, chi con un futuro nella terra d’origine, chi in quella d’adozione. “Il vento di settembre”, che riprende anche alcuni spezzoni di “Siamo italiani”, è un film delicato nell’approccio ma forte nei contenuti, che gentilmente ma con fermezza interroga sia gli svizzeri che gli italiani sul significato, allora come oggi, dell’emigrazione. “Il vento di settembre”, dopo la programmazione negli scorsi giorni al Rialto di Locarno, sarà il 10 aprile all’Iride di Lugano, il 12 aprile all’Ideal di Giubiasco e il 16 aprile al Blenio di Acquarossa nell’ambito della rassegna “Un po’ di cinema svizzero” organizzata dai cineclub. Quarant’anni fa il suo documentario “Siamo italiani” fu un vero e proprio caso. Alexander Seiler, com’è giunto all’idea di incontrare di nuovo le stesse persone di quarant’anni fa per girare un nuovo film, “Il vento di settembre”? Qualche anno fa la Ssr aveva bandito un concorso per la realizzazione di alcuni film sull’incontro fra diverse culture. La mia idea era di ritrovare alcune delle persone che comparivano in “Siamo italiani” e di vedere che cosa ne fosse diventato di loro. Questa volta volevo mettere in rilievo i destini individuali. Casualmente incontrai poi Andres Pfäffli, che fu subito entusiasta dell’idea e decise di produrre il film. Che cosa l’ha più impressionata ritrovando quarant’anni dopo le stesse persone? La loro cultura in senso ampio. Molti di loro hanno avuto una scarsissima formazione scolastica, qualcuno è anche arrivato in Svizzera che era analfabeta. Ma sono comunque sorretti da una vastissima cultura sociale, che si vede ad esempio nei modi di rapportarsi con il prossimo, in particolare con l’ospite. Come s’è svolto il lavoro su “Il vento di settembre”? Non è stato facile, per incominciare, ritrovare alcune delle persone che comparivano in “Siamo italiani” perché non avevamo tenuto nessun nome, nessun indirizzo. Chiedemmo quindi aiuto alle organizzazioni di immigrati italiani della regione di Basilea, e così potemmo ricostruire alcune tracce. Poi, nel settembre del ’99, andammo anche ad Acquarica del Capo e lì ottenemmo subito l’appoggio del nuovo sindaco, eletto dal centrosinistra: con un paio di proiezioni pubbliche gratuite fu possibile riallacciare alcuni importanti contatti. Tornammo in seguito diverse volte fra febbraio e settembre del 2000 ad Acquarica per le riprese, cui si aggiunsero un paio di settimane di riprese nella regione di Basilea. Abbiamo però avuto molti problemi di postproduzione, ed è per questo che il film è uscito solo nel maggio scorso, dopo quasi tre anni di lavorazione. Si può dire che questo è un film non solo sull’immigrazione, ma anche sul mondo del lavoro? Certo, il tema delle enormi trasformazioni sociali e quindi anche del lavoro in questi quarant’anni è sempre presente. Fra le righe emerge un chiaro slittamento di valori nei confronti del lavoro fra la prima generazione di immigrati italiani in Svizzera e le generazioni successive. Per chi arrivò in Svizzera quarant’anni fa il lavoro era un valore in sé, ne erano orgogliosi: nella loro vita non conoscevano altro che lavoro e famiglia. I suoi testimoni hanno avuto difficoltà a parlare dei problemi, comprese le discriminazioni e le umiliazioni, del loro percorso migratorio? È stato molto difficile far dire agli immigrati della prima generazione anche solo una parola negativa sulla loro esperienza in Svizzera. Quando ricordano le condizioni in cui erano costretti a vivere, quarant’anni fa al loro arrivo in Svizzera, dicono che «era un alloggio con i topi», e poi ne ridono: e più di così non dicono. Soltanto uno degli intervistati arriva ad ammettere che «eravamo molto schiavi»: ma un suo concittadino mi ha confidato che è stato questo l’unico passaggio del film che non gli è piaciuto. Credo che qui emerga la capacità di ognuno di noi di dimenticare e di rimuovere. L’odierno benessere economico, raggiunto con il duro lavoro in Svizzera, ha rimosso tutte le difficoltà, le discriminazioni. L’unico senso di dolore che rimane è per la lontananza, un senso di nostalgia per la propria terra. Ha l’impressione che queste persone abbiano raggiunto un loro equilibrio? È in ogni caso un equilibrio molto fragile. Tutti provano la difficoltà di stabilire a che luogo davvero appartengano. Il risultato finale di “Il vento di settembre” corrisponde alle sue attese? Non avevo una tesi. Alla fine credo ne sia risultato un film sulla normalizzazione di una situazione che ad un certo punto non era normale. Credo che rifletta la situazione di sradicamento che è propria di un processo di globalizzazione, inteso in senso per nulla ideologico. È quindi un film con molte sfumature, poco urlato, e che tenta di mostrare alcuni destini individuali. Per i marxisti ho fatto un film impressionista, troppo poco analitico. Mentre da ambienti dell’immigrazione organizzata mi è stato rimproverato di non aver filmato l’arrivo degli albanesi in Puglia… Dopo “Siamo italiani” e “Il vento di settembre”, che lezione si può trarre per la Svizzera, confrontata con nuovi flussi migratori? Dobbiamo arrivare alla conclusione che abbiamo davvero imparato poco. Seguendo la storia dell’immigrazione italiana in Svizzera colpisce che siano bastate due generazioni a far totalmente integrare nel tessuto sociale svizzero questa grossa massa migratoria. E questo malgrado le pesanti discriminazioni cui sono stati sottoposti gli italiani di prima generazione al loro arrivo in Svizzera. Questa reazione di totale chiusura, che era palesemente ingiustificata, l’abbiamo poi ripetuta e continuiamo oggi a ripeterla con le immigrazioni successive, da altri paesi. D’altro canto, guardando al percorso esistenziale di questi immigrati, ci si deve chiedere quale importanza vogliamo attribuire al benessere materiale: non so se gli immigrati di quarant’anni fa che oggi sono tornati ad Acquarica indubbiamente arricchiti, sono anche davvero felici ed appagati. Storia di una film che fece scalpore Alexander Seiler, come nacque quarant’anni fa il documentario “Siamo italiani”, che all’epoca fece scalpore? Volevamo girare, dopo un cortometraggio molto estetizzante, un vero documentario. All’epoca lavoravo ancora come giornalista e m’interessavo molto di politica. Ebbene, proprio in quel periodo s’era acceso un vivo dibattito sui lavoratori stranieri in Svizzera, in particolare sugli italiani: ma nessuno era interessato a come vivevano, cosa pensavano, da dove venivano, cosa facevano. Io invece provavo un forte interesse per l’Italia. Così in breve tempo l’idea di fare un cortometraggio sulla giornata di un operaio italiano in Svizzera ha lasciato il posto a un lungometraggio. Eravamo un’équipe giovane ed entusiasta, ci sentivamo dei pionieri del "cinéma direct", e questo, assieme ad alcuni accorgimenti tecnici (“Siamo italiani” fu girato praticamente senza luci addizionali e fu il primo film in Svizzera per il quale si fece un blow-up) ne può spiegare la forze estetica che ancora oggi si percepisce. Come avevate scelto le persone attorno alle quali costruire quel film? Siamo entrati in contatto con i vari gruppi di immigrati. Volevamo dipingere un grosso quadro collettivo della situazione, non ci interessavano dei personaggi particolari, dei protagonisti. Il problema è che anche noi li conoscevamo assai poco. Ponevamo quindi ai nostri interlocutori domande molto semplici (per esempio «Cosa direbbe al presidente della Confederazione se lo incontrasse?») per indurli a raccontare. E ogni volta avevamo l’impressione di una diga che si squarciasse: le persone che incontravamo avevano un reale bisogno di parlare. Avete avuto grosse difficoltà nel girare “Siamo italiani”, in particolare per quel che riguarda le autorizzazioni alle riprese? Ci aspettavamo delle grosse difficoltà perché l’atmosfera sul tema dell’immigrazione era tesa. All’epoca era attivo un gruppo xenofobo molto virulento guidato dal signor Stocker, un precursore di Schwarzenbach. Ma avevamo ottenuto un buon successo con il cortometraggio precedente e, siccome la nostra intenzione dichiarata era sempre quella di girare un altro corto, non ci sono stati creati grossi problemi. Sia nelle fabbriche che all’ufficio controllo abitanti abbiamo potuto filmare subito e senza complicazioni. Soltanto 11 anni dopo, per un film sulla storia del movimento operaio svizzero, è stato molto più difficile ottenere le autorizzazioni per girare nelle fabbriche. In poco tempo il nuovo cinema svizzero era stato bollato come tutto di sinistra, dunque sovversivo, e io stesso mi ero esposto molto con le mie opinioni, per cui la diffidenza nei nostri confronti era diventata grande. Ma quando abbiamo girato "Siamo italiani" la Svizzera viveva ancora davvero in uno stato d’innocenza, e il cinema non s’era ancora mai davvero interessato alla realtà sociale.

Pubblicato il

07.03.2003 03:30
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