"Siamo accusati di riflesso"

«Quando arrivai a Ginevra la prima volta mi sedetti proprio qui, in questo bar sulla piazza Bourg de Four. Faceva caldo, proprio come oggi, talmente caldo che mi sentivo io stesso sudare. Mi sono guardato attorno; quando ho visto che nessuno mi stava guardando ho pensato che in questo luogo avrei potuto restare a lungo. Da allora sono passati 29 anni». A parlare è Hafid Ouardiri, per lungo tempo portavoce della grande moschea e della Fondazione culturale islamica di Ginevra, licenziato qualche settimana fa insieme al direttore e due altri colleghi – ufficialmente – per discordanze di gestione. area lo ha incontrato per parlare  di integrazione della comunità musulmana che conta 20mila persone a Ginevra.


Ginevra ospita una comunità musulmana. A guardare bene, però, sarebbe meglio parlare di diverse comunità. Come si spiega questa pluralità?
Oltre a Zurigo, Ginevra è l'altra città svizzera in cui troviamo una moschea, due per la verità, una sorta negli anni '60 nel quartiere des Eaux-Vives, nota per le figure di spicco che l'animano quali Tariq, ma oggi, soprattutto Hani Ramadan; l'altra nel quartiere Petit-Saconnex, costruita nel 1978 affiancata dalla Fondazione culturale islamica: entrambe volute per permettere a tutti di riunirsi, di pregare insieme, di ampliare le proprie conoscenze, di apprendere l'islam, permettere ai propri figli di conoscere la lingua araba; di avere un luogo aperto alla popolazione locale. Nel contempo, la comunità continuava a crescere con l'arrivo di musulmani dalla Turchia e dai Balcani in particolare che sollecitò la creazione di altri centri di espressione (Fondation communauté musulmane, Association culturelle bosniaque, Association islamique d'Ahl El Beit, ndr) legati al paese dei nuovi arrivati rendendo il paesaggio della comunità musulmana di Ginevra piuttosto diversificato.
Tra questi centri si è instaurato un dialogo o delle barricate?
Molto spesso si parla di "diverso" invece che semplicemente di "diversità". Malgrado lo scambio e la circolazione di musulmani da un centro all'altro, tende infatti a prevalere un'impronta etnico-culturale che va contro l'insegnamento stesso dell'islam, la cui espressione va al di là delle settorializzazioni etnico-culturali.
Se il dialogo tra musulmani è difficile, come pretendere di dialogare con il resto della società?
Ogni associazioni ha la stessa priorità nei confronti della pratica della fede; restano invece differenze culturali. L'importante è che in "questa diversità musulmana" vi sia un dialogo interno per elaborare delle priorità e analizzare la realtà in cui si vive per adattarvisi. Questo è un lavoro che richiede tempo e impegno. Si fatica perché mentre si lavora, si è costantemente perseguiti dall'urgenza: la tirannia di oggi  per la comunità musulmana è infatti proprio l'urgenza cui deve rispondere. E quando si risponde nell'urgenza non si riesce ad avere sufficiente distanza per trovare la risposta che dovrebbe permettere di installarsi in un paese in modo duraturo.
In questa molteplicità di comunità ve n'è una più di un'altra che ha l'ascolto della società ginevrina?
L'aspetto meraviglioso dell'islam è che in realtà, nel fondo, ognuno è libero nella pratica della propria fede. Nel contempo, però, non possiamo dimenticare di vivere in un sistema in cui il politico, il culturale, la società civile richiedono degli interlocutori. E qui sorge il problema della rappresentanza. I musulmani  ne sono coscienti e cercano così di creare delle associazioni mantello. Ma questo richiede moltissimo tempo perché la priorità e l'urgenza convivono. La priorità è di fare in modo che tutte queste associazioni si uniscano in una federazione in grado di sviluppare delle priorità e arrivare così ad analizzare la società in cui si vive. L'urgenza è l'essere perseguiti da un sistema che esige delle risposte. Ed è difficile fare tutto questo in poco tempo (Il coordinamento delle organizzazioni islamiche svizzere; la Lega dei Musulmani svizzeri o l'Union des organisations musulmanes de Genève sono tentativi non ancora del tutto riusciti, ndr). Non dobbiamo dimenticare che la comunità musulmana in Svizzera è molto giovane ed è composta sia da persone arrivate in passato su ondate migratorie, sia da giovani, musulmani, nati in Svizzera. E ognuno deve trovare il proprio spazio.
Una missione delicata…
Si tratta di dare l'opportunità ai giovani di non essere sospettati costantemente di essere persone ostili alla costituzione, alla democrazia, alle leggi.
Ma questo sospetto è maggiore nei confronti dei musulmani?
Senza dubbio. Gli avvenimenti internazionali non facilitano di certo l'integrazione: è attraverso questi avvenimenti che veniamo giudicati, sono questi avvenimenti che azzerano i nostri sforzi di integrazione. Spesso, poi, le prese di posizione di singoli individui vengono generalizzate come fossero l'opinione di tutta la comunità musulmana.
E ciò può venir sfruttato da partiti come quello di Blocher per mettervi all'indice e guadagnare consensi.
L'Udc è un partito che approfitta della lentezza, delle difficoltà di organizzazione dei musulmani per colpire, per fabbricare la paura e il sospetto. Di conseguenza oltre a dover gestire il fronte internazionale, dobbiamo mantenere il livello di guardia anche a livello nazionale e locale.
E all'ignoranza esterna, si somma poi l'ignoranza interna, quella dei musulmani stessi in merito alla loro capacità di installarsi nel paese.
In che senso?
Io non sopporto chi accetta di essere messo all'indice, di essere accusato di essere antidemocratico, anticostituzionale, antilaico. Dobbiamo dunque reagire per spiegarci con chiarezza, per frenare il sospetto. Dobbiamo fermare la strumentalizzazione politica, utilizzando la volontà politica invece per meglio aiutarci a iscriverci nella cittadinanza. La mia fede non è incompatibile con la cittadinanza e viceversa. Questo deve essere ben compreso.
Lei in questo senso ha fatto molto, in qualità di portavoce della fondazione e della moschea. Ora è libero ma non per questo ha abbandonato il dialogo.

Ho lavorato fino ad oggi per far sapere che la moschea è un luogo come altri nella società, aperto a tutti, al dialogo, allo scambio. Ho lavorato per ricordare che chi va alla moschea non ci va per restarci e richiudersi su se stesso bensì per poi uscirne e aggiungere valore alla società. Questo ho fatto fino a oggi e questo continuerò a fare. Il dialogo per me non è un mestiere bensì una vocazione: è necessario per me parlare con gli altri ma anche con me stesso, e fare una costante autocritica.
Ma visti i fatti recenti, qualcuno alla moschea non deve averla capita…
Alla moschea nessuno mi ha imposto di fare nulla che non volessi fare e io, anche se non ho sempre potuto fare quello che volevo, nel limiti del possibile ho comunque sempre potuto agire nel senso dell'apertura, del dialogo. E tutti i miei sforzi affinché la moschea sia in ottimi rapporti con la città, ora la città me li rende attraverso dimostrazioni di sostegno. E se poi all'interno non sono sempre stato capito, pazienza. Ora guardo avanti: spesso le crisi, seppur ci appaiono difficili, sono salvatrici.
E ora continua a nome di chi?
A nome della Fondation d'Entreconnaissance, una fondazione che avevo istituto con alcuni amici nel '99 come volontà di legame con le altre culture, gli altri individui, le altre comunità e civilizzazioni. La "conoscenza reciproca" è ciò che ci insegna l'islam: su queste basi ora continuo. Per me non c'è rottura: il dialogo continua. E a volte dall'esterno si riesce meglio a fare quello che dall'interno si faticava a portare avanti.
Recentemente ha affermato di voler portare avanti un'iniziativa per migliorare l'integrazione dei musulmani. Di cosa si tratta?
Sono in contatto con le autorità locali e nazionali affinché vi sia più chiarezza sui musulmani; affinché i musulmani possano dire chi sono e smettano di nascondersi, di essere vittima di pregiudizi. Per questo occorre dare delle risposte sull'islam. Un lavoro di comunicazione esterno ed interno è necessario così come un lavoro pedagogico con i nostri giovani che devono potersi costruire una prospettiva di futuro e conquistarsi una propria rappresentanza. Spesso si forza la conquista di rappresentanza perdendo la necessaria fase di maturazione. Ognuno cerca così di aggrapparsi a quella che potrebbe essere l'identità migliore per integrarsi, un'identità che non gli appartiene realmente. L'eccellenza è il solo modo per farsi rispettare. Solo così anche minorità si può sentire utile.
Non tutti i musulmani sono praticanti: da meno di un anno è nata l'Association suisse des musulmans pour la laïcité. Le associazioni attuali erano dunque insufficienti ai bisogni dei laici, la cosiddetta "maggioranza silenziosa"?
Non sono contrario a un'associazione simile. Quello che però mi disturba è la terminologia usata "associazione per la laicità" quasi a dire che le altre associazioni fossero contro. E questo non è assolutamente vero. Questo non fa altro che creare nuove barriere tra di noi. È anche vero che l'Associazione si batte affinché il vivere la propria fede non sia visto come ostile all'integrazione. E questo lascia ben sperare.


Una piattaforma interreligiosa per costruire un dialogo

Ginevra l'internazionale, cosmopolita per antonomasia è "abituata" alla convivenza con l'altro tanto che da una decina di anni ha addirittura istituito, tra le prima città in Svizzera, una piattaforma interreligiosa di dialogo tra le varie comunità insediatesi nel cantone romando. Per saperne di più, abbiamo incontrato Nicolas Junod, presidente della piattaforma.

«Una quindicina di anni fa ci si è resi conto che in una città aperta come Ginevra era possibile instaurare un dialogo tra persone diverse, di appartenenza diversa il che ha progressivamente portato, nel '97, alla nascita della piattaforma vera e propria». Uno spazio in cui riunire comunità diverse con punti di vista a volte simili, a volte dissimili. Tutte presenti per dialogare. «Questa è la vera sfida». Ma possibile? «A Ginevra abbiamo la particolarità, fortunata, di aver vissuto un'esperienza religiosa molto forte, una guerra civile tra due religioni – quella protestante e quella cattolica – che ha portato ad instaurare uno stato laico aprendo la via del dialogo», afferma Junod.
Da quest'apertura ha proseguito la piattaforma, oggi un'istituzione riconosciuta capace di discutere su temi religiosi. «La difficoltà è scegliere quali temi trattare. Non vogliamo entrare in scontri politici o scontri interni delle varie comunità. Il nostro scopo è fare avanzare il dialogo su temi di utilità generale (attualmente la piattaforma sta dibattendo sulla reintroduzione dell'istruzione religiosa nelle scuole pubbliche, ndr). Siamo convinti dell'urgenza del dialogo interreligioso: per la società è un'urgenza politica, ambientale, di sviluppo personale. Oggi, anche se Ginevra è aperta al dialogo, nel contempo prova una certa indifferenza verso problemi di ordine spirituale di società, in opposizione ai fatti materiali che ruotano attorno a Ginevra – il salone dell'auto in primis – con più successo presso i cittadini». Di qui l'urgenza, il bisogno di penetrare ulteriormente nella società per permettere una presa di coscienza del contesto in cui si vive. E così facilitare il dialogo altrimenti impossibile.
In questo contesto come si inserisce la comunità musulmana? «Non ci sono grossi problemi con questa comunità, non più di quelli che incontrano le altre comunità. Se non fosse per i problemi che riscontra di riflesso a fatti internazionali, o quando è chiamata per procura a rispondere su grandi temi che coinvolgono la comunità musulmana mondiale: penso al velo o alla questione delle caricature di Maometto», risponde Junod. «In queste e altre occasioni il nome di Ouardiri è spesso emerso perché si è  voluto esporre, si è mostrato un interlocutore disposto al dialogo e all'ascolto delle opinioni degli altri». Mancherà la sua figura? «Il fatto di sapere che rimarrà comunque a Ginevra è importante e rassicurante. Il dialogo non morirà». «Hafid – confida il nostro interlocutore – ha portato una comprensione e una visione di un islam molto caloroso e volonteroso di creare uno scambio reciproco». Ma allora cosa è successo? «Se avessimo saputo da subito che la grande moschea era "controllata" dai sauditi – solo negli ultimi anni si è notato il loro arrivo e non solo a Ginevra – sarebbe stato facile pensare alle conseguenze. Era a mio avviso prevedibile che un algerino alla testa di una moschea controllata da sauditi (wahhabiti, più ortodossi, ndr) non sarebbe durato in eterno. A stupire, invece, è il modo "brutale" con cui il tutto è avvenuto». Sui problemi di gestione interna Junod non entra nel merito «non ci riguarda, ogni azienda in questo è libera. Quello che si può dire è che a Ginevra, come nel resto dell'Europa, i paesi musulmani esteri, come la Turchia o l'Arabia Saudita tendono ad esercitare un controllo (anche finanziario) sulle comunità in "diaspora" e questo ha le sue conseguenze».
Ma il futuro della moschea? «È tutto da vedere: i nuovi arrivati, musulmani tedeschi, non parlano francese ma non credo vorranno creare una rottura. Non gioverebbe a nessuno».

Pubblicato il

11.05.2007 01:00
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