Si riparte dal sindacato

I simboli sono quel che sono, muovono l’immaginazione ma non sempre hanno una concretezza. Promettono molto, attivano aspettative che solo qualche volta mantengono. Eppure, il segnale migliore che viene dall’Italia del dopo voto, segnata dalla guerriglia destabilizzatrice di un Berlusconi sconfitto di misura e dalla debolezza del centrosinistra, è rappresentata dall’elezione di due ex dirigenti sindacali alla seconda e alla terza carica dello Stato: presidente della Camera è Fausto Bertinotti, segretario di Rifondazione comunista, una vita passata nella Cgil dove è stato a lungo segretario nazionale in rappresentanza della componente di sinistra; presidente del Senato, invece, è stato eletto – con qualche fatica e quattro votazioni per i seggi-voti di scarto tra Unione e Casa delle libertà – Franco Marini, ex segretario generale della Cisl, un’anima e una pratica democristiana, di quella Dc donatcatteniana sempre attenta e sensibile nei confronti del mondo del lavoro. Di questa novità italiana parliamo con Paolo Nerozzi, segretario nazionale della Cgil, legato ai movimenti cresciuti in questi anni sulle tematiche della pace e della lotta alla precarietà del lavoro. Bertinotti e Marini alla presidenza dei due rami del Parlamento. Una discontinuità foriera di cambiamenti concreti, o soltanto una casualità? Intanto bisogna dire che è la prima volta che due sindacalisti in Italia vanno a ricoprire incarichi istituzionali così importanti. Secondo fatto significativo, per la prima volta nei discorsi di insediamento dei presidenti di Camera e Senato si assumono due date simboliche: il 25 aprile, cioè la festa per la Liberazione dal nazifascismo e il 1° Maggio, la festa dei lavoratori. Le condizioni di lavoro entrano dunque a far parte, con questi interventi inaugurali, dell’agenda del Parlamento italiano, sia pure con le differenze di linguaggio e di storia dei due presidenti eletti. L’importanza simbolica si riempie dunque di concretezza e lascia spazio a qualche legittima aspettativa. Come si è arrivati a eleggere due sindacalisti come primo atto del risultato elettorale, pure non esaltante per l’Unione? Io credo che questa positiva novità sia il prodotto della crisi dei partiti di massa. L’effetto della tempesta dell’89 – la caduta del muro di Berlino – non è ancora stato ricomposto. È naturale che dentro la crisi della politica si tentino obtorto collo strade diverse, è ovvio che dentro la loro crisi i partiti di sinistra siano costretti ad attingere forze e valori dal mondo delle professioni o dai sindacati. Questo è il segno che, pur nella tempesta, le organizzazioni sindacali hanno retto all’urto del liberismo e della deregulation ideologica che lo accompagna e ne agevola l’azione. I sindacati hanno aggiunto al loro ruolo istituzionale di rappresentanza dei lavoratori il ruolo importante di supplenza politica, talvolta persino in modo improprio. Nei cinque anni di governo delle destre, la Cgil è stato il motore delle lotte contro la precarietà, fino a raccogliere oltre cinque milioni di firme in difesa dei diritti dei lavoratori e a portare a Roma tre milioni di persone in difesa dello Statuto dei lavoratori. Ed è stato altrettanto centrale il nostro impegno contro la guerra – meglio, contro le guerre. Solo leggendo le ragioni della crisi delle forme classiche della politica si può capire il senso dell’elezione di Bertinotti e Marini. La standing ovation che ha accompagnato Fausto Bertinotti al corteo del 1° Maggio a Torino – «è come se avessero eletto presidenti gli operai di Mirafiori», si è sentito ripetere il neoeletto presidente della Camera – testimonia il sentimento dei lavoratori e le loro aspettative. Ma ora, perché le aspettative non vengano deluse, toccherà al governo dare segnali concreti di cambiamento. Proprio a partire dal rifiuto della guerra e della precarietà. Chiedono che venga restituita dignità la lavoro, alla loro condizione. Certo, il segnale simbolico deve trovare attuazione nella realizzazione del programma politico dell’Unione. Per dirla in sindacalese, dev’essere archiviata la logica dei due tempi: prima il risanamento economico e poi i diritti. Guai a chi tenterà di affrontare la grave crisi economica e di bilancio ereditata da Berlusconi con una politica emendativa del liberismo. Non ci si può nascondere dietro l’indiscussa gravità di bilancio, ci sono atti possibili e dovuti a chi ha reso possibile la sconfitta di Berlusconi che non hanno un alto costo economico ma presuppongono una volontà politica netta. Ne cito tre: 1) ritiro delle truppe dall’Iraq e avvio di una convinta politica internazionale di pace e collaborazione tra i popoli, recuperando il ruolo strategico dell’Italia nell’area calda del Mediterraneo; 2) superamento della precarietà che è esplosa diventando legge (la legge 30, che prevede una cinquantina di forme contrattuali diverse, ndr). Al di là dell’ideologia, la precarietà ha un costo sociale ed economico per la collettività ma anche per le imprese e la competitività del sistema paese; 3) una politica di sostegno per gli anziani che soffrono pesantemente le conseguenze delle politiche liberiste. Si tratta di interventi a basso costo economico e ad alto valore politico e sociale. Un discorso logico e convincente, il suo, che rischia di infrangersi con l’antico adagio secondo cui si vince se si fanno politiche di centro, se si va incontro alle domande dei moderati che hanno votato per l’altra parte politica. Con una vittoria dai margini così ristretti, le voci dei liberisti “cum judicio” possono riprendere vigore. Ripeto, non può succedere che nell’impostazione del governo si riapra la logica dei due tempi in nome della conquista di quella parte dell’elettorato che non ci ha votato. Io dico che intanto chi ci ha votato si aspetta dei risultati e non può essere deluso, pena l’esplosione di una crisi sociale e politica dagli esiti incerti. Inoltre, prendi chi nel Nord ha votato Lega pur essendo operaio e magari iscritto ai sindacati: metterebbe volentieri gli immigrati nel forno, ma soffre della stessa precarietà di cui soffre l’operaio del Nord o del Mezzogiorno che ha votato a sinistra. Nego che in una situazione sociale degradata come quella italiana e segnata dal declino industriale, delle politiche moderate possano avviare un percorso egemonico, per usare un termine gramsciano. Anche tra chi il 23 marzo del 2002 ha manifestato con la Cgil a Roma, al Circo Massimo, in difesa dei diritti dei lavoratori c’erano elettori di destra, cittadini che hanno votato a destra per motivi ideologici o per il senso di paura su cui ha fatto leva Berlusconi. Non devono essere i sentimenti peggiori che si annidano nei meandri della nostra società a orientare le scelte del futuro governo dell’Unione. Il voto non è una delega in bianco di durata quinquennale. Come si sta attrezzando la Cgil alla nuova stagione politica che si apre? La Cgil ha presentato la sua agenda politica al Congresso nazionale che si è tenuto a Rimini all’inizio dell’anno. Ha detto cose chiare a Prodi, che ha partecipato al Congresso, e al futuro governo. Noi speriamo di avere un rapporto positivo e unitario con il nuovo esecutivo, ma questo dipenderà dalle scelte politiche che si faranno. Il 1° Maggio, a Locri, i tre segretari generali di Cgil, Cisl e Uil hanno ribadito il rifiuto della politica dei sacrifici fatti dai soliti noti, in attesa di tempi migliori. Cioè quella che ho chiamato la politica dei due tempi. Eppure, il richiamo alla logica del governo amico si fa sentire anche nel suo sindacato, Nerozzi. Così come il richiamo a politiche moderate, se non addirittura compromissorie con gli avversari politici. Facciamo chiarezza. Con il governo presieduto da Silvio Berlusconi, ovviamente, era impensabile per la Cgil avere un rapporto amichevole. Amici di chi, poi? Di chi in testa ai suoi obiettivi aveva la distruzione della Cgil? Con chi ha tentato di fare carne di porco dei diritti dei lavoratori? Con un governo moderato, di centro, così come con un governo di centrosinistra bisogna sempre fare attenzione al “lato oscuro della forza”. Pericoli ci sono, ma un sindacato che ha retto alla devastante crisi dei partiti di massa ha una marcia in più. Sai qual è questa marcia? È il fatto che abbiamo rapporti profondi e quotidiani con i cittadini, i lavoratori e le lavoratrici. Ogni giorno siamo costretti a confrontarci con la società civile, con i problemi delle persone, con le condizioni materiali di lavoro e di vita che sono pesantemente degradate nell’ultimo quinquennio. Le persone che rappresentiamo sono la nostra ancora di salvezza, e il nuovo governo sarà costretto a farci i conti. E comunque, l’agenda congressuale della Cgil non consente deroghe a governi amici o avversari che siano. La nostra storia, anche recente, testimonia la nostra affidabilità. Con governi di qualsiasi colore politico.

Pubblicato il

05.05.2006 03:00
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