Il cittadino medio americano, quello che ha un lavoro, una casa, due auto e tanti debiti da pagare non sa bene cosa attendersi da questo nuovo anno. Gli esperti economici, quelli che per anni gli hanno assicurato che il futuro riserva solo facili guadagni in borsa, hanno innestato la marcia della prudenza. L’anno nuovo – affermano – forse ci porterà fuori dalla recessione, ma ci potrebbe anche portare da un’altra parte: verso la deflazione, un male oscuro che ben pochi sanno come curare. Per risollevare le sorti di un’economia fiacca e di una borsa sempre più preoccupata dei tamburi di guerra che rullano da mesi minacciosi, il presidente George Bush ha deciso di iniziare l’anno nuovo presentando un nuovo piano di rilancio economico. Annunciato da tempo, la sua presentazione era stata rinviata in dicembre in seguito al brusco licenziamento del ministro del tesoro Peter O’Neill, poco convinto dell’efficacia della cura voluta tra l’altro dai fedelissimi del presidente, come il vice-presidente Dick Cheney e il consigliere Karl Rove, il mago della vittoria elettorale repubblicana del novembre scorso. Il piano del 2003, che per entrare in vigore deve essere approvato dal parlamento, è in parte una copia di quello di due anni fa. Ancora una volta per creare nuovi posti di lavoro si punta quasi esclusivamente al taglio delle imposte. Non è un taglio di poco conto visto che nel giro di 10 anni le casse dello stato si ritroveranno alleggerite di 670 miliardi di dollari (poco più di 900 miliardi di franchi). Bush ha premiato prima di tutto la classe più abbiente, riducendo le imposte sui dividendi. La classe media, la classe operaia e il milione di disoccupati che in dicembre hanno perso il diritto ai sussidi di disoccupazione non sono stati dimenticati, ma riceveranno molto di meno. La borsa ha in un primo momento reagito positivamente, ma ben presto ha ripreso la sua via negativa, viste le critiche che piovono da destra e manca su questo nuovo dono fiscale. Il piano ha diviso gli esperti americani ancora prima di essere presentato ufficialmente a Chicago, città industriale da tempo in crisi. Forti dell’esperienza di due anni fa, molti economisti dubitano che il pacchetto serva a creare rapidamente nuova occupazione, che è l’obiettivo a cui sembrava mirare il presidente. In America – affermano – l’economia tira se tirano i consumi. Quest’anno gli aumenti salariali reali saranno più l’eccezione che la norma. È vero che milioni di famiglie pagheranno meno tasse federali, ma c’è il forte rischio che il risparmio venga assorbito dalle amministrazioni locali, che sempre più numerose stanno pensando di aumentare le entrare fiscali per coprire i deficit. Almeno 45 dei 50 stati americani chiudono i conti in rosso e i margini di manovra per il risparmio sono ridotti al lumicino. C’è chi si chiede se la nuova ondata di tagli fiscali sia opportuna in questo momento che il deficit pubblico aumenta e le spese militari continuano a fagocitare sempre più mezzi economici. Quest’anno per la difesa Washington spenderà 365 miliardi di dollari (32 in più dell’anno prima), altri 70 se ne andranno per la sicurezza interna. Come fare per far quadrare i conti? La ricetta della Casa Bianca è semplice: mantenere invariata la spesa globale. Il che significa che quest’anno ci saranno meno soldi per settori importanti come gli aiuti alle classi meno abbienti, la protezione dell’ambiente o la lotta per la depurazione delle acque, solo per fare qualche esempio. È così che Bush e il suo partito, che ha ormai la maggioranza nei due rami del parlamento, continuano a propagare l’idea del meno stato, salvo poi scoprire, come è avvenuto dopo l’11 di settembre, che i controlli di sicurezza negli aeroporti non funzionano e il servizio va nazionalizzato. Anche quando si tratta di sicurezza nazionale Bush non risparmia più, ma coglie l’occasione per ridurre al lumicino i diritti dei lavoratori. Il 170 mila dipendenti del nuovo dipartimento per la sicurezza interna non godranno della protezione sindacale. In sintesi d’ora in poi i dipendenti potranno essere assunti, licenziati o trasferiti senza protezione di sorta. È stato un segnale in più della sempre più palese determinazione dell’amministrazione Bush di minare l’influenza dei sindacati del settore pubblico, grandi sostenitori dei democratici. Sin dai tempi dell’amministrazione Reagan “nessuna amministrazione si è scontrata in modo così aggressivo con sindacati pubblici” rilevava recentemente sul “New York Times” Joseph A. McCartin, uno storico del lavoro alla Georgetown University di Washington. A suo modo di vedere l’obiettivo è di «cercare di diminuire il potere dei sindacati pubblici, ciò che avrebbe una forte implicazione per il movimento sindacale in generale». Per cercare di far quadrare i contri Bush vuole adesso ridurre drasticamente l’apparato pubblico, ciò che lo aiuterà indirettamente a minare l’influenza dei sindacati pubblici. Nel giro dei prossimi due anni l’amministrazione americana vuole privatizzare circa la metà dei funzionari pubblici civili. La misura potrebbe interessare 850 mila dipendenti statali (colletti blu e colletti bianchi) che operano nei settori più disparati: dalla logistica militare ai computer, dai rilevamenti topografici al pagamento dei biglietti nei parchi nazionali. Che effetto avrà questa misura sul deficit dello stato? Ben poco come rilevava recentemente il professore di Princeton Paul Krugman costatando che le paghe dei dipendenti minacciati rappresentano solo il 2 percento del bilancio federale. Allora perché fare tutto questo sforzo? Servirà sicuramente a mantenere vivo il dibattito sulle privatizzazioni. A far credere che lo stato dimagrisce, mentre in realtà non fa che trasferire i compiti altrove, magari senza dare troppa importanza alle possibili conseguenze, col rischio di ritrovarsi domani a dover riparare i danni, come è successo con i controllori agli aeroporti o con un’impresa di computer di Boston che operava per il Pentagono e la Casa bianca ed è adesso sospettata di avere legami con Al Quaeda. La privatizzazione può poi creare una rete di rapporti preziosi. Lo si è visto in Florida, dove il fratello del presidente, Jeb Bush, ha attuato una decisa campagna di trasferimento ai privati di varie mansioni. Secondo il “Miami Herald” questa politica «ha generato una rete di appaltatori che hanno dato a lui (Jeb Bush ndr), ad altri politici repubblicani o al partito repubblicano della Florida milioni di dollari sotto forma di sostegno elettorale». I democratici invece sono stati praticamente dimenticati. Come dire che la privatizzazione sta creando nuovi modi per legare l’economia alla politica e viceversa. Se il gioco dovesse funzionare anche per il presidente allora i suoi conti, vale a dire le entrare che arriveranno nelle sue casse elettorali, potrebbero quadrare tra due anni. I conti dello stato invece, se continua di questo passo, tra due anni segneranno rosso profondo.

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24.01.03

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