Si allarga la forbice salariale in Svizzera

Negli ultimi vent'anni le retribuzioni molto alte sono cresciute del 47%, quelle medie del 16.

Gli stipendi alti, quelli molto alti, negli ultimi venti anni sono cresciuti della metà (47%), mentre quelli medi del 16%. È uno dei dati centrali emersi dallo studio dell’Unione sindacale svizzera sull’evoluzione dei redditi da lavoro in Svizzera. E poiché l’aumento dei salari nominali non equivale matematicamente ad avere più soldi in tasca, perché le spese aumentano più velocemente, lo studio analizza anche la variazione del potere d’acquisto nel corso degli anni tra le varie classi di stipendio.

 

Un semplice grafico quale quello allegato (vai al grafico) può raccontare la storia economica svizzera dell’ultimo ventennio. Il racconto inizia con i rampanti yuppies di fine anni ’90, con l’avvento della figura del manager, perlopiù uomini e pochissime donne, lautamente pagati a colpi di bonus per fare gli interessi immediati degli azionisti, magari anche a costo di perder di vista gli obiettivi dell’impresa nel medio-lungo termine. Bonus che, scendendo lungo la scala gerarchica aziendale, smagriscono man mano pur sostituendo in proporzione la quota del salario fisso.


La linea gialla degli elevati stipendi mostra una crescita costante nell’ultimo ventennio, la cui salita si è bloccata solo allo scoppio delle due crisi economiche, quella d’inizio millennio e quella ben più grave del 2008. Quell’ascesa continua racconta pure del fallimento dell’iniziativa Minder “Contro le retribuzioni abusive”, accolta a furor di popolo contro lo strapotere dei manager nel 2013 con il 67,9% dei voti, ma i cui effetti sono stati praticamente nulli. Nei fatti, la forbice tra i livelli salariali ha proseguito la sua corsa senza ostacoli, trasformandosi in un fossato socio-economico importante.
Unica soddisfazione, segnala con un certo orgoglio l’Unione sindacale svizzera, l’esser riusciti perlomeno a elevare i miseri stipendi a fondo scala, battendo il chiodo con le campagne del primo decennio «nessun salario sotto i 3mila», seguito dall’iniziativa popolare per un salario minimo obbligatorio di 4mila. Quest’ultima, seppur sconfessata in votazione popolare, ha contribuito a tematizzare i bassi salari quale argomento di discussione nell’opinione pubblica, provocando l’effetto in diverse importanti aziende d’implementare quella soglia minima, non fosse altro che per una questione di marketing pubblicitario. Se i bassi salari hanno dunque conosciuto una relativa crescita, quelli di mezzo hanno invece avuto una progressione molto più mite.
L’Uss torna quindi alla carica, in questi anni di buona congiuntura dell’economia elvetica, rivendicando per il prossimo anno degli aumenti salariali generali significativi (2,5-3%) che consentano di colmare il divario accumulato nella storia recente.

Premi e tasse su, paghe giù
Anche perché, sostengono le organizzazioni dei lavoratori, negli ultimissimi anni i salari reali sono praticamente rimasti fermi, in particolare dopo l’abbandono del cambio fisso del franco da parte della Banca nazionale svizzera nel 2015.
Al contempo invece le uscite dei salariati, premi cassa malattia in modo particolare, hanno conosciuto una costante progressione. «Dal 2000 ad oggi», ha spiegato l’economista capo dell’Uss Daniel Lampart, «il peso dell’assicurazione sopportato da un gran numero di famiglie dal reddito medio o modesto, è perlomeno raddoppiato».
Nel 1996, quando fu introdotta la legge sull’assicurazione malattia (Lamal), l’obiettivo politico era che i premi non superassero l’8% dei budget dei nuclei domestici, hanno spiegato i dirigenti sindacali. Essendo la realtà odierna molto lontana da questo obiettivo, l’Uss vede positivamente un’estensione del tetto del 10% sul modello recentemente introdotto nel canton Vaud.
Altra nota dolente per il potere d’acquisto riguarda il carico fiscale per i ceti medio-bassi. «Negli ultimi 15-20 anni, la politica svizzera in materia d’imposte e spese obbligatorie è stata concepita a favore delle classi privilegiate, mentre le economie domestiche dai redditi medio-bassi sono state tassate più pesantemente. Questa politica antisociale ha annullato i miglioramenti salariali» ha chiosato l’economista Lampart.
Infine, un ulteriore punto spinoso riguarda i lavoratori sopra i cinquantacinque anni. Nella categoria degli stipendi medi e modesti, le persone di questa fascia d’età hanno ricevuto gli aumenti salariali più deboli. Ciò vuol dire che saranno doppiamente penalizzati. Quando andranno in pensione, i 55enni saranno dunque i più grandi perdenti a causa dei bassi tassi di conversione del secondo pilastro. Urge dunque alzare in modo generalizzato le paghe medie e modeste, sottolinea l’Uss.

Pubblicato il

08.11.2018 16:53
Francesco Bonsaver