L’Associazione dei proprietari ticinesi delle stazioni di servizio (ATTS), riconducibile nei numeri a tre famiglie (Centonze, Cattaneo e Baumgartner), riprovano a separare il Ticino dalla Svizzera. Se la prima volta le tre famiglie erano riuscite a impedire per anni l’adozione di salari minimi sul territorio cantonale scaturiti dagli accordi tra partner sociali che avevano portato a un CCL nazionale di settore, oggi si oppongono a ogni possibile aumento a compensazione del rincaro del costo della vita delle dipendenti. Un rincaro stabilito attorno all’uno per cento dall’autorità federale. Un indice del rincaro che non tiene però conto dei premi cassa malattia. Solo questi ultimi aumenteranno mediamente in Ticino del 10,5%, contro il 6% di media nazionale. I lavoratori e le lavoratrici ticinesi, che già ricevono salari mediamente inferiori di un quinto rispetto al resto del paese, si vedono così ulteriormente penalizzati nella perdita del potere d’acquisto rispetto ai colleghi degli altri cantoni. Lo scarto salariale fatto in casa Seppur sia sovente comodo attribuire la responsabilità a soggetti esterni ai confini cantonali, i fatti dimostrano il contrario. Il caso degli shop ticinesi è illuminante sulle cause nostrane del divario salariale tra il sud della Svizzera e il resto del paese. A lungo osteggiata dal padronato ticinese, la griglia salariale del CCL shop prevede tre regioni d’applicazione. Venti cantoni nel primo livello, cinque nel secondo e uno nel terzo, il Ticino. Gli stipendi ticinesi oscillano dai 3.600 franchi lordi per i senza diploma ai 4.000 con formazione triennale o quadriennale. La differenza tra il primo e il terzo livello regionale della griglia salariale, varia tra i 200 e i 230 franchi al mese. Oltre duemila franchi in meno all’anno. Un divario destinato ad allargarsi, se l’aumento sarà per tutti tranne gli esclusi ticinesi. Non è un problema di redditività. «Non vi è nessuna differenza di costo tra una stazione di servizio in Ticino e nel resto del paese. Il carburante, l’affitto o i prezzi di costruzione, i prodotti in vendita, hanno dei costi identici in Ticino come nel resto del paese. Il margine di profitto è esattamente lo stesso» aveva spiegato ad area Gian Arpagaus, dirigente di Coop Mineraloel AG, proprietaria di quasi 250 stazioni di servizio sparse sul territorio nazionale, quando si discuteva di adottare un CCL nazionale, Ticino compreso. La differenza sta nel profitto guadagnato pagando meno i dipendenti. Non vi sono cifre pubbliche al riguardo. L’unico dato arriva dalle tasse pagate al Cantone per la concessione delle sei aree di servizio autostradali. La famiglia Centonze ne possiede tre, una la famiglia Cattaneo, mentre due appartengono alla Coop. Fatto salvo il biennio pandemico, negli ultimi cinque anni le tasse pagate incassate dal Cantone in base alla cifra d’affari (le cui percentuali non sono note), sono leggermente cresciute. Dai 5,75 milioni di franchi del 2019, ai 6,6 milioni dello scorso anno. Facile presumere che le aree autostradali siano una gallina dalle uova d’oro. Visto il proliferare di shop dei benzinai sul territorio cantonale, si direbbe che, anche fuori dell’autostrada, i profitti siano perlomeno interessanti. Ancor meglio se non si deve condividerli coi dipendenti. Di cosa significhi vivere con 2.900 franchi netti quale lavoratrice a tempo pieno in uno degli shop dei benzinai ticinesi, abbiamo raccolto la testimonianza nell’ultimo numero di area. Lavorare solo per sopravvivere, sempre sul filo del rasoio, sintetizza la problematica. Cambio di strategia Quando nel 2015 si discuteva a livello nazionale di regolamentare le condizioni d’impiego e i salari del ramo tra i gestori delle stazioni di servizio e i sindacati, dalla neonata associazione ticinese partì una crociata contro l’ipotesi di un CCL. Sconfitti internamente dalla volontà padronale, i gestori ticinesi uscirono dall’associazione nazionale sbattendo sonoramente la porta.
Dall’esterno, inoltrarono un ricorso che fu accolto nel 2017 dal Consiglio federale. Il padronato ticinese poté così continuare per anni a non rispettare i salari minimi in vigore nel resto della Svizzera. Perfino il governo ticinese espresse il suo disappunto per la decisione federale di escludere il Cantone dal resto del paese. A quella prima vittoria dei gestori ticinesi, seguì una sconfitta. Quando le parti sociali inserirono nel rinnovo contrattuale ancora una volta dei salari minimi anche al Sud delle Alpi, il secondo ricorso dei gestori ticinesi fu questa volta bocciato. I salari minimi diventarono così finalmente obbligatori anche in Ticino dallo scorso novembre. Sconfitto, il padronato ticinese cambiò strategia, rientrando nell’associazione nazionale quest’anno. Primo obiettivo, impedire l’aumento al Sud delle Alpi. La reazione sindacale La responsabile del terziario a Unia Ticino, Chiara Landi, è indignata ma non sorpresa dal rifiuto ticinese di concedere un aumento salariale. «Questa attitudine del padronato ha l’effetto di amplificare il divario salariale tra il Ticino e il resto della Svizzera. Lo hanno sempre fatto e continuano tuttora. Anni fa, quando si discuteva di un CCL nazionale, sono entrati nell’associazione padronale svizzera con lo scopo di boicottarne la sua introduzione. Non ci sono riusciti e hanno quindi lasciato l’associazione per avviare una battaglia legale contro l’adozione di salari minimi in Ticino. Una prima volta sono riusciti, con l’esclusione dei salari ticinesi decisa dal Consiglio federale. Quando le parti contrattuali hanno reinserito gli stipendi minimi in Ticino, hanno inoltrato un secondo ricorso, questa volta perdendo. Ciò ha portato ad avere finalmente delle paghe minime obbligatorie anche al Sud delle Alpi dallo scorso novembre. Vista la sconfitta legale, hanno cambiato strategia, rientrando nell’associazione nazionale, col fine di impedire in Ticino l’aumento nazionale che i datori di lavoro degli altri cantoni sono disposti a riconoscere ai loro dipendenti in tutto il resto della Svizzera». Allo stadio attuale la loro strategia sembra trovare un sostegno presso l’associazione nazionale, ma le trattative per il rinnovo contrattuale sono al momento sospese. Nessun dubbio invece per Chiara Landi su quale sia la considerazione dei gestori ticinesi nei confronti del personale. «Questa classe imprenditoriale dovrebbe mostrare più rispetto nei confronti dei suoi dipendenti. Stiamo parlando di una categoria di lavoratrici e lavoratori già impiegati in condizioni difficili, festivi, domenicali e di notte. Molti di loro inoltre, rischiano l’incolumità fisica e ripercussioni psichiche non essendo rare le rapine ai distributori in Ticino. Negare loro una minima compensazione all’aumento del costo della vita, equivale a svalorizzare le persone che svolgono questo lavoro». |