“Sfruttiamo tetti e balconi per fare orti ed essere autosufficienti”

L’architetto Michele Arnaboldi: “La pandemia ci offre una lezione: si può rispondere alle sfide globali con più locale. E le case possono trasformarsi in spazi verdi per l’autoproduzione”

Due anni fa la nostra quotidianità era appena stata stravolta con il primo lockdown e la pandemia è entrata materialmente in tanti edifici, ma a livello simbolico si è infilata in tutte le case del mondo. Il Covid ha portato a ripensare il nostro modo di abitare, che ora reclama nuovi significati, come indica un primo rapporto della Commissione federale dell’alloggio. «Abbiamo l’opportunità di cambiare in meglio il nostro modo di fare casa, contribuendo a cambiare il mondo: curando il locale, si difende il territorio, e si hanno risultati globali» ci spiega l’architetto locarnese Michele Arnaboldi, cattedra all’Accademia di Mendrisio, che già immagina pomodori e insalatine crescere su balconi e tetti.

 

Il filosofo italiano Emanuele Coccia afferma che nella nuova “normalità” saremo più domestici e meno urbani. Chissà. Certo è che la casa per secoli è stato “il resto”, quello a cui si tornava, mentre una parte importante della vita avveniva nello spazio pubblico cittadino. Sotto a un tetto ci si separava dal mondo, chiudendolo fuori dalla porta. Ora il mondo entra senza bussare dalle feritoie digitali e la casa in questi due anni è cambiata dapprima nella nostra pratica quotidiana e poi nel nostro immaginario, prendendo idealmente nuove forme, territori e misure.

 

 

Abbiamo incontrato nel suo studio di Minusio l’architetto Michele Arnaboldi, per commentare la “rivoluzione” domestica cui stiamo assistendo. Arnaboldi, classe 1953, laurea al Politecnico federale di Zurigo, autore di oltre un centinaio di progetti, vincitore di numerosi concorsi nazionali e internazionali, copre la carica di professore di progettazione all’Accademia di architettura di Mendrisio. «La pandemia ha accentuato nuovi bisogni, stravolgendo i paradigmi sui quali era strutturato la nostra concezione dell’abitare. Un evento drammatico che si trasforma in un’occasione per migliorare le nostre costruzioni: più verde, più sostenibilità, più attenzione all’esterno e più condivisione di spazi. In questo senso, l’architettura può dare il suo contributo per migliorare la qualità di vita dei cittadini e del pianeta».

 

Architetto Arnaboldi, il rapporto della Commissione federale ci dice che è aumentata l’importanza dell’abitare. Che cosa è la casa? Non vogliamo un discorso globale, ma locale.

L’abitare, dai tempi della caverna risponde a una necessità primaria e ogni momento storico lascia un’impronta edificatoria. Se guardiamo alla casa del Ticino di fine Ottocento, troviamo ancora in Valle di Blenio, la traccia di grandi ville: le famiglie erano più numerose e, sotto lo stesso tetto, coabitavano più generazioni tra nonni, fratelli ormai adulti, cugini, bambini. Le abitazioni rispondevano a questa necessità di spazio. Poi cambia il modo di lavorare, di intendere i rapporti familiari e con essi il modello di casa...

 

E si arriva al modello di casa unifamiliare, simbolo di agio...

Nel secondo dopoguerra si registra un boom di case unifamiliari, all’interno di una città che si fa sempre più diffusa, estesa. Le nuove costruzioni inghiottono e mangiano aree agricole, creando quella criticità con cui siamo oggi confrontati. La villetta, la casetta con il giardino è il sogno americano che arriva in Ticino. Non solo le pandemie attraversano le frontiere, ma pure i sogni condotti da un cavo, in quel caso analogico. La televisione plasma l’immaginario collettivo: la famiglia si riunisce davanti a un contenitore di immagini, nelle mura di una casa di proprietà, attrezzata di un posto per l’automobile. Elementi che influenzeranno le scelte pianificatorie. Sul finire degli anni Cinquanta la fiducia nel trasporto privato è incondizionata, perché permette di vivere nelle proprie case anche se scollegate dalle linee ferroviarie e dei bus. Si tratta di un modello poco sostenibile, che non possiamo più permetterci, e del quale la pandemia ci ha mostrato i limiti e i pericoli. Il Covid, mandando in cortocircuito le vecchie certezze, ha messo in evidenza la necessità di applicare nuovi parametri di sostenibilità, andando a recuperare territorio consumato, promuovendo l’edificazione laddove si trovano gli snodi ed evitando la creazione di nuove inutili aree edificabili.

 

La casa da modello legato alla condizione sociale diventa uno spazio dove introiettare parte di quelle attività che, fino a poco fa, si svolgevano all’esterno. Non sorprende che, come indica il rapporto della Commissione federale dell’alloggio, sia aumentata la domanda di abitazioni più spaziose...

Che cosa abbiamo imparato durante i vari lockdown? Che i modelli speculativi con cui si è costruito negli ultimi decenni non garantiscono una buona qualità della vita domestica. Balconi, spazi esterni, giardini, piazze sono insufficienti. Il verde delle case, ridotto al minimo, non fa paesaggio e non produce qualità urbana. Lo stesso discorso vale nel pubblico, che a un certo punto ha smesso di curare il concetto di qualità dei quartieri, che risultano senza vitalità: non si è più costruito nel territorio spazi pubblici che fossero davvero pensati per un uso forte da parte della comunità. E questi sono i limiti di un’architettura che guarda troppo al design e poco a svolgere una funzione.

 

La pandemia ci ha condotti definitivamente nel mondo digitale. Come usare bene la tecnologia?

La rivoluzione digitale, ridefinendo l’importanza degli ambienti in cui viviamo, porta a ripensare gli spazi interni ed esterni. Io la vedo come una grande opportunità: forza propulsiva per una svolta che promuova una nuova qualità del vivere. L’architettura, attraverso i suoi interventi ragionati sul territorio, può contribuire a costruire un mondo più sostenibile. E la sostenibilità parte dagli edifici che abitiamo e si traduce nel ritrovare la capacità perduta di essere autosufficienti. La strategia per rinverdire i tetti piani, trasformandoli in giardini e orti urbani, è un valido mezzo per garantire l’autosufficienza agricola a interi quartieri come dimostra un recente studio condotto a Losanna. Sì, si può rompere il sistema del mercato globale, ripartendo proprio dalle nostre case: quei pomodori che, non sapendo di niente, fanno il giro del mondo prima di finire nei nostri piatti, possono invece essere frutto di una produzione in casa nel senso letterale della definizione. Sfruttiamo balconi e tetti per creare un’economia sostenibile. La lezione che dobbiamo ricavare dall’esperienza pandemica è che alle sfide globali si può rispondere con più locale.

Pubblicato il

23.03.2022 09:07
Raffaella Brignoni