Quasi nessuno si accorse della nube silenziosa galleggiante nell'afa estiva di quel sabato mattina. Il 10 luglio 1976 nella fabbrica Icmesa di Meda l'esplosione del reattore al reparto B sprigionò una grande quantità di una sostanza tanto velenosa quanto misteriosa, la diossina. Sospinta dal vento, la coltre venefica raggiunse presto i paesi vicini di Seveso, Cesano Maderno e Desio. Non ci furono vittime dirette nella popolazione, la diossina sparse il suo carico di veleno e di morte lentamente. Morirono quasi 80 mila animali nei giorni e mesi successivi, alcuni bambini (fra cui le due sorelline Senno, assurte a emblema del disastro), che abitavano nelle vicinanze della fabbrica, svilupparono la cloracne, una seria dermatite che dava gli effetti di un'ustione, mentre tutti i terreni vennero contaminati. A impiantare a Meda le Industrie chimiche meridionali Sa (Icmesa) era stato il leventinese (di Ambrì) Ugo Rezzonico nel 1947. La fabbrica venne poi rilevata dalla Givaudan e quindi dalla Hoffmann-La Roche il cui presidente del Consiglio d'amministrazione Adolf W. Jann in un'intervista rilasciata il 28 agosto '76, riferendosi al disastro dell'Icmesa, lo liquidò così: «Capitalismo vuol dire progresso e il progresso può portare talvolta a qualche inconveniente». L'"inconveniente" per Seveso e dintorni era stata la fuga del mostro di veleno che al suo passaggio stravolse non solo il paesaggio dei luoghi ma anche degli uomini che li abitavano.

«Dietro quell'orologio, proprio lì, c'era il reparto B dove trent'anni fa il reattore dell'Icmesa esplose. Lei vede il parco giochi, la tribunetta del campo sportivo, più in là una piscina, io vedo tutto questo ma al contempo vedo i reparti di produzione della fabbrica, i macchinari, gli operai. Ogni volta che torno qui le immagini di ciò che questo luogo è stato e di ciò che è ora si alternano come in un caleidoscopio».
Trent'anni dopo, Amedeo Argiuolo varca – come tante altre volte è successo in questi decenni – il cancello del Centro sportivo di Meda. A spiegare cosa sia stato fino al 1976 quel luogo basta la toponomastica: via Icmesa 23-25. Della fabbrica di un tempo, resta il muro di cinta. Dal centro parte la zona A sulle cui "ceneri" è stato creato il Bosco delle Querce (si veda articolo a pag. 9). Da qualche anno, Argiuolo è pensionato (ha continuato a lavorare per la Hoffmann-La Roche a Milano dal 1977), ha tre figlie e da pochi mesi è nonno. «La paura per la diossina? – ci dice – Faccia un po' lei: avevo una figlia di un anno e le due gemelle erano nate il 21 giugno del 1976, giusto qualche settimana prima… Inutile dirle come mi sentivo con tutte le informazioni contrastanti che circolavano».
Ai tempi del disastro Argiuolo aveva  29 anni, come sindacalista della Fulc-Cgil (Federazioni unitaria lavoratori chimici) era coordinatore dei delegati del Consiglio di fabbrica. All'Icmesa ci era arrivato poco più che diciannovenne, nel 1966, dalla provincia di Caserta, chiamato dallo zio che nella fabbrica ci lavorava già da tempo. «Ero addetto alla caldaia della centrale termoelettrica come fuochista, poi migliorai la mia formazione e mi presero all'Ufficio tecnico. Erano tempi caldi, il '68 era appena dietro l'angolo e sorgevano un po' ovunque i primi Consigli di fabbrica (Cdf). Ed erano tempi in cui era facile nascondere la pericolosità di un ciclo produttivo o la mancanza di misure di sicurezza dietro quello che i padroni chiamavano "segreto industriale"».
Con il trentennale dell'incidente, Argiuolo è chiamato da più parti a testimoniare gli eventi di allora. Quell'allora che gli ritorna in mente con la vividezza dell'oggi. «Dopo l'incidente del sabato 10 luglio, per due giorni nessuno di noi seppe niente. Rientrai in fabbrica il lunedì successivo e vidi che il reparto B era chiuso. La direzione minimizzò l'accaduto  rimandando tutti a lavorare come se niente fosse».
Gli operai però erano inquieti, la gente si accalcava ai cancelli della fabbrica, soprattutto quelli che abitavano le case dell'Icmesa; le informazioni si accavallavamo a ritmo battente creando un clima di allarme e disorientamento. «La direzione era un muro di gomma, così il venerdì 16 luglio convocammo una conferenza stampa e dichiarammo che da quel momento la fabbrica sarebbe stata bloccata. Qualche giorno dopo anche il sindaco di Meda firmò un decreto di chiusura dell'Icmesa».
Nei mesi successivi, un gruppo di operai fra cui lo stesso Argiuolo, viene ingaggiato per svuotare il reparto B dalle sostanze nocive: «Muniti di tute e mascherine facevamo turni di 4 ore. Ci volle molta pazienza e tempo per spiegare alla gente che rientravamo non per lavorare ma per bonificare». Troppo contrastanti le informazioni con cui gli abitanti venivano bombardati: «Da una parte c'era un certo professor Trabucchi dell'università di Milano che in tivù diceva di essere disponibile a mangiare l'insalata di Seveso e dall'altra giravano voci che solo avvicinarsi alla fabbrica si rischiava la pelle. Per la gente del posto era davvero dura: non potevano accettare che un pericolo invisibile, di cui si cominciava a dubitare, potesse sconvolgere la loro vita».
Con i dubbi arrivarono i primi attriti fra la popolazione e anche fra operai il clima non era tra i migliori. «Come Cdf riuscimmo ad ottenere un piano sociale – spiega Argiuolo – per cui una parte di noi venne riassunta in altri stabilimenti della Hoffmann-La Roche mentre ad altri venne data l'opportunità di ricevere un indennizzo. Io andai a lavorare nei laboratori di Milano dove ci sono rimasto fino alla pensione arrivata un anno fa. Non fu indolore: dovemmo affrontare l'ostilità di molti lavoratori della La Roche che temevano che "quelli dell'Icmesa" gli avrebbero rubato il posto».
Ogni volta che Argiuolo viene interpellato dai giornalisti o in appuntamenti pubblici si ritrova a dover riaffrontare una vecchia insinuazione: che i sindacalisti del Cdf "non potevate non sapere": «C'era chi per screditarci politicamente aveva messo in giro la voce che come Cdf avevamo addirittura preso dei soldi in combutta con la direzione. Calunnie che per fortuna morirono da sole quando pubblicammo la fotocopia dei nostri salari». E a riprova ci mostra i volantini del dopo-disastro, uno in particolare in cui tutto il Cdf insieme al coordinamento della Fabbriche Roche «individua (tra l'altro, ndr) nella Hoffmann-La Roche la responsabile del disastro e di tutti i danni presenti e futuri conseguenti al fatto Icmesa».
Checché se ne dica oggi, prosegue Argiuolo, gli operai non sapevano niente della diossina che si poteva sprigionare col surriscaldamento del triclorofenolo (Tcf, sostanza-base per un disinfettante ospedaliero: esaclorofene) prodotto in fabbrica, «né avevamo mai saputo di incidenti simili avvenuti anni addietro in altri paesi». Come quello del Giappone dove nel 1972 un grave disastro provocò l'intossicazione di circa duemila persone o quello accaduto in Inghilterra nel 1968 alla Dow Chemical di Bolsover in Gran Bretagna dove per la rottura di una valvola di sicurezza ci fu un inquinamento da diossina. «Erano i tempi in cui l'Italia, sulle questioni ambientali, era ancora alla preistoria. Noi come Cdf avevamo lottato, ottenendoli, per avere gli Smal (Servizi di medicina degli ambienti di lavoro di recente costituzione, ndr) all'Icmesa grazie ai quali abbiamo migliorato le misure di protezione e sicurezza dei lavoratori. Purtroppo però chi era addetto alla lavorazione del tcf sapeva soltanto che non si poteva superare una data temperatura e questo era tutto. La Hoffmann-La Roche però sicuramente sapeva dei gravi rischi ed in questo ha tutta la responsabilità. Purtroppo però, come spesso accade, chi sa di meno paga di più e chi sa di più paga di meno».
Cosa resta a distanza di trent'anni? «Credo che la tragedia di Seveso abbia fatto emergere, tra le tante cose, la grande capacità degli abitanti coinvolti di mobilitarsi. Se oggi la normativa a livello europeo sulla tutela ambientale e la protezione dei lavoratori è quella che è lo si deve anche a loro. Ed è questo che oggi vado a dire ai giovani: le normative Seveso 2 e 3 non sono uno stigma ma un segno del loro riscatto e un monito a chi ha il potere economico che l'ambiente è un tesoro di tutti e non una discarica in cui poter impunemente buttare i propri rifiuti».

Pubblicato il 

07.07.06

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